MARCO ALDRIGHI
Gente d’ottobre
Topografia per una sceneggiatura mancata.
Coordinate: Max Aub, Samuel Beckett, Jan Svankmajer,
Roman Polanski, Alfred Hitchcock
Più o meno a metà della raccolta leggiamo:
Si guarda alle spalle,
sa di essere seguito.
Le mani sudate
stringono il manico dell’ombrello.
Dietro la sua ombra,
soltanto io
e il mio taccuino.
un accenno metaletterario molto importante che permette di identificare con maggiore sicurezza la raccolta come un insieme di appunti impressionistici che l’autore raccoglie, enucleando dalla realtà dei tagli, dei brandelli circoscritti e dando loro la forma epigrafica di una memoria sospesa.
Il tratteggio veloce, la forma breve e brevissima, articolati in versicoli apodittici riescono a creare, complice
l’atmosfera grottesca transitiva tra realismo poetico e surrealismo, una coesione che sulle prime sfugge favorendo invece la sensazione del frammento autoreferenziale e autoconclusivo. Le tessere del mosaico di questo taccuino che compongono “Gente d’ottobre” si muovono in uno spazio molto definito disponendosi nella loro coralità ellittica. Il lavoro per sottrazione che tende a far emergere il cuneo icastico dell’evento, del fatto o dell’azione, produce un lieve disorientamento e una tensione continua che ci traghetta velocemente verso l’ultimo componimento, mossi dalla voglia di scoprire la prossima piega dell’inspiegabile, il fotogramma successivo di un osservatore onnisciente -in quanto utilizzatore di un “io” fittizio, diegetico- che
manomette la realtà secondo una logica mossa dall’irrazionalità dell’inconscio, tentando di ricomporre
una continuità nella discontinuità dell’esistenza. Il lavoro di Marco Aldrighi può benissimo venire inteso come una topografia per una sceneggiatura mancata o a venire. Probabilmente il plot completo, lasciato alle cure del lettore, che può divertirsi a fantasticare sui possibili snodi dell’azione, starebbe di diritto nella filmografia di Raoul Ruiz o di Luis Buñuel, con uno stile scrittorio che non può non ricordare il Max Aub dei “Delitti esemplari”. Tuttavia considerando i campi semantici che si manifestano in modo indolente, ma anche brutale, come iceberg dell’inconscio, il pensiero corre più naturalmente -tanto per rimanere in
termini cinematografici- alla fenomenologia claustrogena di Roman Polanski. Le dinamiche di questa “gente
d’ottobre”, mese di transizione, come le scene rappresentate che producono un’attesa permanente (tanto
che paragrammaticamente nel titolo possiamo rinvenire la parola “godot”), sono circoscritte in spazi ricorsivi e netti: i luoghi chiusi prevalgono su quelli aperti e su quelli non dichiarati e indeterminati. Stanze, case, soffitta, museo, teatro, treno, macchina, supermercato, lavanderia, chiesa, hotel, ma anche cappello, tasca e scarpa sono tutti elementi che concorrono a creare un clima di confinamento volontario, una regressione di fronte all’insostenibile violenza del reale verso una condizione prenatale, un ritorno alla certezza e alla protezione uterina, nonché alla quiete amniotica. Peraltro la liquidità fetale è dichiarata esplicitamente nei versi:
Raccoglie le gambe,
è di nuovo bambino.
Casa sua,
un paio di toppe sul cappotto
e un fazzoletto di tela.
ed evocata negli unici spazi aperti descritti, sempre in relazione all’acqua (mare e fiume), se si eccettuano i binari del treno e le “situazioni ventose” e “sociali” che rafforzano comunque l’esigenza di evadere, di congedo, di fuggire dall’imponderabile, per immergersi nei perimetri misurabili del confino dorato. Come in Polanski però lo spazio chiuso delle certezze può trasformarsi in una prigione che genera mostri e destabilizza. Sicuramente l’alleanza che Aldrighi instaura con gli oggetti, affrancandoli dalla statica percezione funzionale, impedisce a “Gente di ottobre” di raggiungere il delirio e il dramma claustrofobico di film come “Repulsion” o “L’inquilino del terzo piano” (citato quest’ultimo, credo, con cognizione dall’autore in uno dei testi), tuttavia, pur nei toni sempre sornioni e disincatati, compaiono degli elementi di disturbo
e di violenza che alterano inevitabilmente l’ecosistema di questo mondo appartato, abitato da poche cose e ancor meglio da poche persone. La raccolta si apre subito con l’immagine dell’impiccato, un esergo di “no trespassing” che fonda una distanza di avvertimento e allo stesso tempo un limite apotropaico invalicabile. Ma la scena è già sporcata dall’elemento perturbante del femmineo e dall’erotismo evocato dalla scarpa: eros e thanatos si insinuano fin da subito per minare il diorama della certezza e proliferano in correlativi oggettivi di forte sapore surrealista: il prete, il cimitero, il ragno, la lucertola, l’aragosta, il piede, l’ombrello, i manichini, etc. Tutto nella prospettiva di un’analisi eterodossa dei rapporti interpersonali, della comunicabilità del disagio, in un’intermittenza di pulsioni concretizzata nello sfumare al nero dell’ultimo fotogramma:
La luce se ne andava
dalla stanza.
Seduti al tavolo,
si tenevano per mano.
Lui fece per alzarsi
e accendere la lampada,
poi rinunciò
e tornò a sedersi.
Forse se “Lui” avesse acceso la lampada si sarebbe reso conto che la donna e il boia erano la stessa persona.
(Daniele Poletti)
da Gente d’ottobre
L’impiccato
penzola nella tempesta.
Scalzo.
Una donna
gli porge una scarpa
e il boia tira la corda.
*
Nascosto in un cappello
conta le fermate del treno.
Al capolinea,
sbircia un giornale di ieri
e chiede che giorno è.
*
La gente d’ottobre
si china a guardare le cose.
Nessuno sente il rumore,
una macchina sfreccia sulla strada
e la sua ombra
è a miglia di distanza.
*
L’uomo della 14A
bussa alla porta dell’uomo della 14B.
L’uomo della 14B apre
e l’uomo della 14A
«Salve, questa è casa mia».
*
La forchetta è sporca.
Ricordo che prima di me
è appartenuta a qualcun altro.
Provo a immaginare
la sua bocca, i suoi denti
e il cameriere
mi porta il conto.
*
Il mio migliore amico
è un piede.
L’ho trovato in soffitta,
in un vecchio baule.
Lo porto in giro,
le ragazze lo accarezzano.
Se sei gentile, certi giorni
ti fa anche le fusa.