Viviana Fiorentino – Lontananze
Viviana Fiorentino, l’insuperabile presenzialità della memoria
La vitalità malinconica di Viviana Fiorentino, la cui silloge Lontananze attraversa, nelle sue sezioni Autunno a Berlino, Estate e In giardino, tutto lo spazio poetico di una profonda e tenebrosa unità, rifugge le modalità immaginative e retorico-stilistiche attraverso cui la poesia si esprime, evocando la materia del suo orizzonte espressivo senza che accorte utopie del linguaggio e adeguate mediazioni simboliche appesantiscano il grumo dolente e l’angoscia radicale che ne costituiscono la radice.
Una dolorosa condizione di attesa, governa infatti il respiro della memoria voluttuosa che anima certe immagini del bellissimo Autunno a Berlino, con il suo sfumato hopperiano “pomeriggio nell’acquario di luce”, mentre la bellezza nostalgica, di un quasi impoetico nominare una vicinanza ritrovata, rende “rizomi di cieli del sud i nomi” quasi a voler governare i meccanismi percettivi della ricordanza, di matrice leopardiana, spogliandosi però di certe forme cristallizzate di stile che, come direbbe Barthes, sono soltanto “un fenomeno di ordine germinativo”, non una suggestiva epifania di liberazione da certe forme linguistiche della figuralità poetica più aderenti, queste, alla comunicazione quotidiana che all’insuperabile anomalia della solitudine, padroneggiata dalla Fiorentino con matura complessità.
In una luminosa nostalgia, si dilania un circostanziato monologo: un soggetto chiuso in una sua vita in cui – usando i termini di Della Volpe – il “letterale-materiale” si converte nel “contestuale-organico” e acquista “un di più di senso”, con il minimo di scarto, senza quindi il ricorso a fattori simbolici, mantenendo cioè il mondo comune e le parole del linguaggio come oggetti del discorso poetico, senza nulla far perdere alla loro concretezza. “Suono era ora sulle dita memoria,/sulla tua pelle per me era scrittura …” (da Estate): tempo e spazio esaltano dunque l’accordo originario che con la realtà ha stipulato la parola, accordo che si tratta di sancire e rinnovare, riconoscendo che il rapporto tra parole e cose sia fondato su di una condizione di irrevocabile naturalezza. Si direbbe che per la Fiorentino il compito del poeta sia far funzionare questo rapporto, nel senso di una trascrizione di quella che Marc Bloch chiamava “la storia mentre accade”: la storia infatti non accade per andare elusa o dispersa ma, al contrario, esige di essere subito detta, raccontata, trasformata in linguaggio e in narrazione. Ecco infatti, sempre da Estate, “I momenti della storia, dicesti,/erano per me un fatto lineare. //Un momento della memoria, dissi,/è fuori ora della pagina scritta.”: la sincronia di parola e evento alimenta una presenzialità della memoria che rende il poeticum testimone di sé, lo storico di sé, dal momento che il singolo fatto va ad inserirsi in un intreccio dove nulla è casuale ed effimero.
La vita psichica mentre accade costituisce in questo modo la materia storica di cui l’atto poetico si fa stringente e doloroso racconto, geograficamente determinato, e nello stesso tempo ineluttabile principio di dilatazione emozionale: “Tenemmo il cielo prima che crollasse…”. Da una poesia di interrogazione e di indagine del vissuto, la Fiorentino giunge così ad modernità vulnerata e chiaroveggente, implosa per eccesso di sollecitazioni vitali nell’attimo in cui “un cielo viola si apriva in frantumi…” (da In giardino). (Antonella Pierangeli)
Alessio Alessandrini – I congiurati del bosco
La raccolta muove su piani semantici e tematici persistenti (la morte, la guerra, la natura) in una dialettica costante di scontri e equilibri precari: la fuga dal vuoto, la pace nel disastro, la verità della natura. Queste istanze trasversali si rendono eco insistita di una superficie testuale che allestisce costantemente personae tragiche, a tratti fiabesche (una cameriera bambina; un vecchio che cammina come in trincea; una cavalletta che aspetta un salto verso il dopo), e impalcature sceniche. Così prende corpo una società/teatro mai conciliata perché vuota di profondo. Tra flaconi di negozi spendi bene, descrive un umano che corregge l’imprevisto di natura, fatto artificialmente “immune al tempo”: nella fuga illusoria del farsi bello oppone un vitale irreale al non più autentico, al mai vivo davvero. L’illusione cosmetica si fa ridicola ed esonda nel carnevale, sperato rovesciamento che è però solo maschera di vita con il cerone; non soluzione salvifica dell’umano ma sua realizzazione ultima e coerente. Il gioco barocco viene attinto e reiterato anche linguisticamente, con cadenze da nenia, mentre tematicamente la drammatizzazione teatrale avviene in una “fiera della vanità” dove un lungomare diventa palco, le bibite cicuta. La lotta delle personae è quotidiana, un marchingegno mai fermo: c’è riflesso di guerra (Gaza, Damasco) e in essa un incantamento apatico. L’allestimento tragico fa del vicino il nuovo reduce; di un pallone contro un garage una ghigliottina; nel mondo quotidiano imperversa una bufera di scoppi. Solo la presa di coscienza epifanica nella natura fa scudo alla morte in coazione. Di qui la narrazione di animali e forze: un rospo che è l’uomo allo specchio; una lucertola al sole aperta al bene e al suo contrario; la pioggia che si compie nelle foglie in un tombino; le orchidee velenose che fanno semplice la legge di vita. Qui l’atto poetico si fa fortemente ermeneutico, intimo scardinare: traccia linee di guida che non siano certe e già date, ma vere. L’esito di uno sperato equilibrio si ha solo in una eterna presenza assente, nella eco di una lotta instancabile: c’è una rivolta e un segreto di resistenza, una marcia che continua. Così, i morti congiurati risorgono nella natura, nelle marzoline chiedono il conto con un costante occhieggiare, forte nonostante le gelate. Parallelamente, i quadri di farsa sono attenuati in un’immagine di infanzia: a gattoni, nel box di un bambino che lancia via tutto ciò che ha attorno, c’è il nucleo solido dell’umano: un animale senza un bosco per nascondersi, pacificamente braccato e arreso. (Gaia Giovagnoli)