Roberta Ioli – Dura un attimo il battito
I tre testi presentati dalla cesenate Roberta Ioli – che ha al suo attivo già due raccolte pubblicate per Italic/Pequod nel 2014 e nel 2016 – convincono per l’autorità con cui perseguono un legame vivo con la tradizione senza curarsi di mode o tendenze, proiettando il lettore in una dimensione atemporale fatta di costanti antropologiche, come «il fuoco del racconto» o la radicalità nella cura dell’ospite (quella xenìa che rappresenta il più sacro, oggi calpestatissimo, valore che ci ha lasciato la classicità), e di parole senza corruzione, come «luce», «terra», «casa», «approdo». Lo perseguono con una limpidezza e una grazia pudica, quasi “reticente”, particolarmente apprezzabili, ma che non stupiscono in una studiosa del pensiero greco delle origini, come è Roberta Ioli, che ha da poco dato alle stampe per Mimesis un volume intitolato Il felice inganno. Poesia, finzione e verità nel mondo antico. Nel terzo testo è soprattutto il Notturno di Alcmane che riverbera in quel «dormono gli abitanti dell’aria e degli abissi», descrizione sospesa di quei momenti in cui il frastuono del mondo finalmente tace e allora altre voci più sotterranee si sentono, come la «lingua del mare», che parla di sangue, di destino, e della permanenza, nonostante tutto, del canto. Di interessante c’è in particolar modo il fatto che il passo incantato dei lirici greci non viene ricalcato passivamente in una pretesa di innocenza, ma posa su un suolo cavo e inquietante che va alla ricerca della “radice d’ombra” sottostante al pensiero. Il «ciclo della parola» è contemplato nella sua condanna a una periodicità carsica che, pur giurando sulla vita, sempre sottrae le certezze alla leggibilità aproblematica del soggetto. E l’orrore non è rimosso, in quanto rimane la presenza refrattaria alla luce di «ciechi mattatoi», bensì convive con le tracce della civiltà ancora incarnate nel simbolo di una «tavola quadrata». Kósmos in cui Ioli ribadisce la sua fiducia, ma sempre circoscritto dal perimetro buio delle partenze e degli addii, dai vortici delle separazioni, nella consapevolezza che sono proprio i pendii scoscesi, quelli che che tolgono il respiro, a rappresentare le altezze e le prospettive di caduta dell’umano. (Maria Luisa Vezzali)
Valentina Proietti Muzi – Sonetto a due voci
La selezione proposta da Valentina Proietti Muzi, editor e poetessa ancora sostanzialmente inedita, risulta particolarmente interessante e da menzionare per la riflessione sulla schizofrenia della parola poetica portata avanti dal “Sonetto a due voci”, dove il discorso procede dissonante nell’alternanza di endecasillabi e settenari irregolari, sobbalzando per strappi dalla madre-matrice del linguaggio, che è contemporaneamente cavità risucchiante e sfondo rispetto al quale attuare il processo differenziante alla ricerca di un’identità individuale. Il primo polo – quello dell’unità notturna inghiottente e sostituente – si manifesta nell’inevitabilità del dettato materno («e poi mia madre (sempre lei) che dice»), nell’affermazione della sua onniscienza rispetto alla natura della figlia («conosco / bene i tuoi pensieri») e nella definizione della contiguità genitoriale come prigione panottica alla quale non può essere nascosto nessun movimento interiore («quando è scuro ti vedo / tutta-dentro»). Simbiosi rassicurante, per quanto mortifera, alla quale la figlia sembra prima reagire con il «Ma tu che sai» incipitario delle terzine, poi arrendersi con la duplicazione simmetrica delle azioni («prende aria» / «prendo aria»), per approdare infine a un’affermazione dell’io singolare come messinscena della sofferenza, che sarà anche sofferenza del distacco («che spettacolo dà il MIO dolore»). Il sonetto successivo, sviluppato metricamente in modo simile al primo, tematizza la continua minaccia di paralisi emozionale del soggetto, in una condizione di «supergelo» che ha echi zanzottiani, nonostante la pulsione verso l’altro. Difficile far coincidere la «vasca di comune inverno» con la «vasca di comune piacere»: l’area semantica prevalente è quella del ghiaccio, che neppure il tempo o l’amore possono scalfire a causa di una «tutta-siepe» che blinda la coscienza inibendo l’osmosi tra il dentro e il fuori. La «lady di freddo» coincide con il trionfo di un super-io che rimane «a distanza dalla vita» per un’adesione inevitabile e masochistica all’inflessibilità della legge: si noti infatti non solo l’enfasi sulla parola «regola», sottolineata dall’enjambement alla fine del v. 9, ma anche l’aggettivo «morigerata», che etimologicamente deriva da mos + gerere, ovvero accettare il lascito parentale, la norma, il costume tràdito. Nell’ultimo testo, “Il mondo che fa per me”, Proietti Muzi abbandona la forma sonetto, ma non la predilezione per la coppia settenario/endecasillabo, che continua a dominare anche se con alcuni significativi troncamenti. Due ternari durissimi, infatti, chiudono sia la prima strofa, sia il componimento, a marcare di nuovo il tormento della separazione: al v. 9 l’inarcatura «chi vi ha strappato / da me» rende il dramma della consapevolezza che, per quanto amati, i morti possono abitare solo le regioni notturne dell’onirico («il mondo che fa per me / si nasconde nel sonno») o quelle livide del rimosso («la voce di quei morti / che risalgono la corrente»), mentre la seconda strofa si rivolge a un tu «dall’altro lato della strada», residente in un «luogo mostruoso», un aldilà che non suona meno acherontico del fiume dei versi precedenti. In una poesia del 1998 l’autrice americana Adrienne Rich scriveva: «per un animale umano la richiesta d’aiuto / di un altro animale / è il grido più straziante… della terra». Massimamente straziante il grido che chiude il pezzo di Proietti Muzi: «Non di là, è da me / che devi tornare. // Ma dove». Tre sillabe che restano a echeggiare nel vuoto, domanda senza punteggiatura, senza fine, senza consolazione. (Maria Luisa Vezzali)