Massimo Rizza – Periferie di senso
La sezione di apertura di Periferie di senso di Massimo Rizza, intitolata I corpi delle città, si presenta come una topografia rovesciata, sorretta da un’incalzante prosa ritmica. Il luogo – nominato soltanto alla fine di ciascun testo – si materializza progressivamente attraverso un susseguirsi di visioni, ricordi, tracce mnestiche. Il dato urbano viene così a coincidere con il dato umano, la pura materialità è sempre abilmente trascesa in paesaggio vissuto e reinterpretato nei secoli, facendosi reperto storico-culturale, elemento folclorico o suggestione personale di un viaggiatore solitario. Il rimando metaforico iterato si conferma marca stilistica prevalente e innesca a più riprese fitte catene di analogie : le “triglie rimaste piegate nelle reti di un tempo/ da riparare, mentre il cielo sembra sprofondare nella pancia degli scafi”, o ancora “ le cupole che cullano i miracoli di marmo”, “le radici a serpente che avvolgono e soffocano i peccati mortali”.
Le città perimetrate da Rizza hanno volti, mani, profili adunchi, e conducono a loro volta verso un’ulteriore proliferazione di non-luoghi, la cui natura sarà in parte chiarita nelle sezioni successive.
In Amori liquidi, dove il verso lungo o pseudo-verso si alterna a misure più brevi, il tasso metaforico-sinestetico del lessico si intensifica riecheggiando stilemi ermetici e neo-orfici (“nebbia di pensiero”, “desiderio di un miraggio”, “un abbraccio ancora primordiale”). D’altro canto è possibile ricostruire, seppure in via astratta, una figura amata che si rende manifesta attraverso i segni del proprio passaggio: profumi, melodie, apparizioni sfocate e incerte. Il rituale dell’amorosa visione assume i caratteri di una mitologia privata che rifugge qualunque paradigma logico-razionale, condannando il soggetto a un ostinato tentativo di definizione, mai conciliato.
La terza sezione, I volti, si apre non a caso con un componimento che potrebbe dirsi programmatico, dal momento che si nomina esplicitamente la “poesia” e, con toni fortemente assertivi e icastici, il soggetto sembra svelare l’istanza più evidentemente costitutiva di un’intera poetica: “amo l’eternità dura”. Sergio Givone nell’introduzione dei Dialoghi con Leucò di Pavese scrive: “Mito è, nello stesso tempo, qualcosa di necessario e di impossibile”. Ebbene, è questa irriducibile dicotomia insita nel mito privato a impedire l’emersione dei verba propria e, di conseguenza, la fuga dall’alienazione personale mediante la creazione di un patto semantico organico. Appare del tutto coerente, in questo senso, il riferimento al Pasolini di Petrolio, citato in exergo fra una sezione e l’altra, così come la collocazione in posizione finale di Sembianze. Proprio quest’ultima sezione risulta interamente percorsa e scossa da un movimento conativo: si pensi alle frequenti occorrenze dei verbi di volontà, al dissidio fra immaginazione e percezione, alla torsione della sintassi nel veicolare “parole che vivono senza radici, spostate dal vento”.
Qui la figura amata diviene, in definitiva, un nome impronunciabile, del suo eidolon evanescente non resta che il “farsi vuoto”. Di contro il soggetto, irretito nella propria coazione a ripetere, tenta di registrarne il timido baluginìo appena un istante prima della scomparsa. “nella sua quasi sparizione vibratile”: queste le parole di Mallarmé, evocando “una certa esplosione del Mistero a tutti i cieli della sua impersonale magnificenza”. (Marilina Ciaco)
Dimitri Ruggeri – Bambini e zanzare
Per la scrittura di Dimitri Ruggeri si è spesso parlato di «poesia di reportage» e tuttavia, se l’elemento documentaristico è senz’altro presente, occorre specificare le modalità mediante le quali tale istanza si declina e l’alto grado di problematizzazione al quale la voce poetica è soggetta, facendosi tramite di una tensione etica e conoscitiva di rara intensità. Laddove lo sguardo documentaristico avrebbe comportato una focalizzazione esterna, con un movimento di macchina sostanzialmente estraneo a quanto viene catturato dall’obiettivo, la poesia di Ruggeri, al contrario, non si limita alla pura registrazione di fatti, cose e persone, bensì tenta di restituirne una percezione dall’interno che non teme di sfidare i limiti imposti dal ben dire e dal ben pensare.
Il soggetto poetico aderisce in primis a un’identità circostanziata: è un viaggiatore occidentale che sceglie consapevolmente di rifuggire i luoghi del turismo sicuro massificato (quelli da Erasmus e da mostra di Van Gogh) per inoltrarsi nelle periferie più sordide e infette di Sarajevo o di Vladivostok, al fine di affrontare un necessario viatico senza protezioni “nel ronzio inumano/ dell’umanità”. L’umanità reietta e accolta dal tessuto dei versi è l’umanità la cui esistenza si tende troppo spesso a rimuovere poiché essa si presenta come corpo – anatomico e sociale – in brandelli, sempre sul punto di essere fagocitato e nel contempo sopravvivente come simulacro di un senso di colpa: l’umanità inesorabilmente contagiata e scarnificata dagli effetti dell’economia globale, dai regimi repressivi, da condizioni sanitarie ad altissimo rischio, dal Krokodil al quale si intona il rovesciamento tragico-grottesco di una preghiera, nella quale del Pater noster non resta che il vuoto linguistico. Ebbene lo stesso soggetto, fattosi coscientemente testimone delle atrocità che lo circondano, oscilla fra la spietata invettiva, vissuta come unica via di reazione possibile, e il conato spasmodico a incarnarsi in ciò che vede, a marchiare la propria epidermide con i segni dello sfacelo.
Bambini e zanzare sembra dirci che gli spettri sono reali, sia che si tratti dei valori monetari di Wall Street – l’intangibile finanziario elevato a valore unico – o delle innumerevoli mistificazioni operate dal potere in ambito giudiziario, sia se si ripensano le catastrofi umanitarie nella loro cruda materialità, in quanto fenomeni esistenti e concreti, ben al di là dei linguaggi mediati dal gergo politico e televisivo. Sulla sintassi piana e cadenzata di Ruggeri si innesta un lessico denso, asciutto, che non teme di chiamare le cose con il loro nome e di chiamare, attraverso le cose, il lettore: proprio il largo utilizzo di toponimi, lingue tecniche, forestierismi, sintagmi che ibridano italiano neo-standard e sub-standard, insomma di tutto l’ampio repertorio del «basso» in senso socio-linguistico, questa lingua segnala un chiaro invito a una visione rasoterra della contemporaneità, scevra da pregiudizi e facili prese di posizione. Né il soggetto né il lettore possono dirsi innocenti: non basta chiudere le persiane per ignorare il morbo di un intero pianeta, perché prima o poi le persiane cadono, e non è più possibile sottrarsi alla visione delle fondamenta purulente che sostengono le nostre abitazioni di cemento armato. L’autore si rivela peraltro fortemente critico nei confronti della tradizionale utopia marxista che sperava di “salvare me,/te,/ e il mondo”, rivelando il rischio, oggi più che mai attuale, di ritrovarsi ingabbiati nel ricatto della paura reciproca, l’uno di fronte all’altro, sperando di essere il più veloce a fare fuoco.
La scrittura di Ruggeri si inserisce in una contingenza storica nella quale è bene tenere a mente l’imperativo fortiniano sulla responsabilità della poesia: di fronte alla disumanità legalizzata dall’avanzata di poteri ottusi, schierarsi non è più una prerogativa marginale. Quando è sempre più evidente l’attacco ai fondamenti etici di uno stato, di più stati, e dunque potenzialmente del mondo globalizzato nella sua totalità, schierarsi diventa un obbligo. (Marilina Ciaco)