Simone Burratti, Progetto per S., Nuova Editrice Magenta, 2017.
La raccolta si configura come un progetto realizzato accuratamente, con geometria e anche freddezza, come a contenere una spinta eversiva. Le quattro sezioni di cui si compone sono tutte costituite da cinque testi e delimitano uno spazio preciso all’interno del quale il soggetto assieme alle sue maschere prende rifugio, quasi autorecludendosi e sancendo la sua separazione dal mondo. In particolare, la prima sezione e l’ultima, rispettivamente in Posizione orizzontale e Quadrato, illustrano entrambe un ripiegamento su se stessi che esclude la realtà circostante e gli altri, cercando di pervenire a un distacco (“Comincerai a staccarti dal mondo e i tuoi rapporti con l’esterno cambieranno”; “Sono una persona lontana. Conosco la mia vita e molte altre cose, senza che nessuna mi tocchi. Sto concentrato solo sui miei atomi, e sulle interferenze del vento che attraversa il giardino. […] Sono solo lontano. Conosco la tua vita e molte altre cose, senza che nessuna mi tocchi”). Le due sezioni centrali invece, Costruzioni e Appunti per un distacco, presentano l’io che interagisce, meglio tenta di interagire, con l’alterità sia essa l’ambiente o la donna, giungendo nella terza sezione al culmine di un processo di confronto che fallisce e si ripiega onanisticamente su di sé, segnando anche il punto di massima sperimentazione stilistica (googlism, riscritture, collage…). In questa sezione appare l’unica alterità che sembra comprendere e accettare il soggetto: si tratta del suo vecchio computer, alterità non giudicante e soprattutto che non rimanda all’io la sua immagine che inevitabilmente lo irriterebbe; è anzi l’unica entità che sembra accettarlo appieno (“Ti confidavo tutto senza paura di giudizio […] il bagnato degli occhi contro i tuoi cristalli freddi, che non sono uno specchio ma soprattutto un grande contenitore compresso, un acquario che chiude al di qua. E mi sentivo bene, mi sentivo chiaro e accettato. […] Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi”).
Si è detto che il soggetto rifugge la realtà recludendosi in uno spazio chiuso e limitato, privandosi quasi della sua sensibilità come se il suo fine ultimo fosse quello di non sentire più, forse per evitare di sentire troppo, e questa dinamica è spesso rappresentata all’interno della raccolta attraverso un andamento dicotomico tra ricerca dell’aponia e dell’atarassia e una spinta eversiva alla violenza corporea e al disordine emotivo. Al contempo però l’io si nasconde a se stesso, facendo ricorso a delle maschere rappresentative di un’individualità turbata e frammentaria, forse perché l’agognata unità psichica risulta impossibile. Tali maschere appaiono in maniera netta nella prima e ultima sezione, ovvero nei momenti in cui il soggetto ha eretto confini quasi invalicabili tra sé e il mondo. Così, il primo testo della raccolta presenta una delle maschere dell’io, quella del proprio sé infantile, la prima di una lunga serie e al tempo stesso quella da cui tutto ha origine e si origina: “Ho sempre ferma in testa un’immagine di me | da bambino, e i suoi occhi sono buoni. || Vorrei che fosse l’unica immagine del libro, | ma è soltanto una mia proiezione, qualcosa che si è perso. || Scriverlo non significa salvarlo | ma tornare ad avere i suoi occhi per un attimo; || ripercorrere i movimenti della sua natura, | starlo a sentire, perdonare il suo futuro”. Viene subito dopo negata alla scrittura ogni funzione salvifica (“capirlo può farmi andare oltre, | spezzare il ciclo e salvarmi, oppure no”) ma al tempo stesso gli è attribuita una possibilità intrinseca: il recupero della sensibilità e dell’innocenza perdute, sebbene solo per qualche istante, e un risalire a ritroso all’origine della propria esistenza. Scrittura che avviene a posteriori, dopo l’esperienza, e che è pertanto al contempo memoria e riflessione (“Sto scrivendo da un tempo diverso”; “sto scrivendo da lontano”) e si accompagna allo sforzo di ricordare un tempo altro (“Rivivo una casa del passato […] cerco di ricordare la notte di ieri […] Passo in rassegna una serie di ricordi che ritengo piacevoli”; “Ricordarsi di tutte le cose belle che contavano”). Alla maschera del bambino se ne aggiunge un’altra, quella di una personalità riprovevole o comunque dannata, che sfida o infrange i tabù della società di appartenenza: ne deriva un indugiare sulle perversioni sessuali, sull’incapacità di provare sentimenti, un lasciarsi vivere che sconfina nell’apatia e una ricerca di uscita da essa attraverso atti estremi e violenti. Ma poi l’io e tutte le sue maschere sembrano accettare e anzi rifugiarsi in una prigione, come se essa fosse l’unico modo possibile per affrontare la realtà: una sua accurata limitazione all’interno della quale è possibile assumere il controllo (“Libero da tutti i mondi a cui non ho accesso. […] Nella mia stanza non ci sono vortici di vento e polvere, e tutto è sotto il mio controllo.”; “S. ha tracciato il perimetro di un quadrato intorno a sé. Mura invisibili che si alzano virtualmente all’infinito, abbozzi di reclusione accennati appena […] definiscono lo spazio mentale entro cui S. si muove: anche se volesse, non potrebbe più uscirne”). La reclusione in una stanza, sia essa fisica o mentale, è allo stesso tempo ciò che determina la malattia del soggetto, sia un tentativo di cura. La camera, nella sua sospensione fisica e temporale dal fluire del reale, permette al soggetto di tentare di divenire uno, di integrare in sé le proprie personalità (“uno è quello che vorrei essere”): la reclusione diviene quindi necessaria per evolvere (“Quando uscirò di qui, riprenderò tutto da dove lo avevo lasciato. […] e io sarò solo in un modo diverso”).
Si giunge così all’ultimo testo della raccolta, nel quale S., una delle maschere dell’io, sancisce la regressione del soggetto e rinuncia alla sua interazione con il mondo: è divenuto apatico, chiuso agli altri e all’ambiente circostante, si è privato di tutto e si è ridotto a mero dato biologico. L’ultimo gesto al quale noi lettori assistiamo è il suo tentativo di eliminare il sole che rivela il desiderio di comportarsi come un piccolo demiurgo rinchiuso indefinitamente nella sua stanza, unico luogo in cui la sua sovranità è riconosciuta (“Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una mancanza fuoricampo. C’è il sole, come se niente fosse. S. lo nasconde con l’icona del Cestino”).
Giusi Montali