Emanuele Baiolini – Il terreno – lo so bene – è sdrucciolevole
Le tre poesie presentate da Emanuele Baiolini partono da situazioni quotidiane, descritte con minuzia di dettagli, per impostare più ampie riflessioni. La versificazione segue un andamento narrativo, che liberamente varia lunghezze e ritmi, assecondando le pause del respiro e del pensiero. Ad accomunare le tre proposte è la tensione verso l’altro: sebbene il “tu” come interlocutore sia presente solo in un richiamo al lettore nella seconda poesia e nella terza dedicata alla madre, tutte nascono dal confronto con una persona, che ne diviene protagonista. Un confronto che assume i connotati del conflitto nella prima poesia e dell’osservazione empatica nella seconda. A introdurre i primi versi di questa mini-silloge è, a guisa di epigrafe, la citazione da un testo del monaco buddhista Thich Nhat Hanh, che mette in questione la metafora più comunemente usata per illustrare la contrapposizione tra bene e male, vale a dire la lotta tra buio e luce. Ciò che accade in realtà è che le tenebre, sconfitte, non scompaiono ma si fondono con la luce. La coesistenza di quelli che normalmente vengono percepiti come opposti si rispecchia nella duplice natura maschile e femminile che è presente in ognuno di noi e alla quale qui ci si riferisce con i versi “ogni uomo è una donna / in quei giorni di specchio / caleidoscopico” e con il riferimento al timore, da parte del maschio, nei confronti del proprio essere femminile. Ed è così che una riflessione sull’omosessualità e sull’omofobia nasce dal ricordo di un incontro o meglio di uno scontro senza conseguenze tra due auto a un incrocio. “Il terreno è sdrucciolevole” si avverte in apertura di poesia con riferimento non soltanto alle condizioni della strada responsabili dell’incidente ma anche alla percezione della realtà che si tende a volere netta e che invece è sfumata. Il maschio alfa coinvolto nell’incidente ha paura della propria componente femminile, per questo rivolge all’altro uomo il classico insulto: “Minchia guarda che frocio!”. Il poeta va invece a ritrovare l’umanità del proprio interlocutore pur dietro la durezza delle sue parole: ricorda un giovane uomo che in viso gli sferrò un fiore, un gesto aggressivo che però utilizza un oggetto in sé delicato, dietro il quale si immagina una storia di solitudine e malinconia. È come se l’uomo avesse fatto arma della propria fragilità, che non sfugge allo sguardo empatico del poeta. Lo stesso sguardo che nella poesia seguente accarezza una sedicenne vista per caso, sola e dagli occhi pieni di passione, che diviene lo spunto per una riflessione sul linguaggio e sul dire in poesia. Un dire che in partenza viene negato, stavolta ricorrendo a una citazione di Wittgenstein, ma che il poeta rimette in gioco man mano che, strofa dopo strofa, dialoga con sé stesso in un crescendo della propria presa di coscienza: forse qui nulla andrebbe detto – impossibile tacerne – diremo. E le tre strofe delineano anche il ritratto della ragazza, affettuoso e curato nei particolari: la prima si avvale di un linguaggio densamente metaforico per mettere a fuoco il volto attraverso lo sguardo acceso, i due nei e gli zigomi rosei che spiccano sulla pelle definita “di gelo”; la seconda strofa si abbassa a cogliere le magre caviglie brune esposte nonostante il freddo di dicembre, e il gesto che da esse parte, un tendere della persona verso il cielo. Di fronte a questa scena non si può non dire, ma l’atto di dire è un terreno scosceso – non troppo diverso da quello sdrucciolevole della prima poesia – qualcosa con cui fare i conti, per riequilibrare gli slanci dell’ambizione e i limiti della parola: limiti che vengono evocati tre volte, le prime due per essere negati e l’ultima come rivelazione. Questo dibattito interiore sul linguaggio trova infine suggello nella terza strofa, in cui le parole arrivano a distillare il senso poetico della visione quotidiana. Nella terza poesia i versi si fanno brevi perché occorre prendere fiato per scendere nel buio della mente della madre, a cui è stata diagnosticata una depressione. La discesa non può che avvenire con la cautela di un versificare lento che conduce fin nel buco di terrore, nel centro di buio dove la goccia scava la roccia della vita. Sono immagini potenti che esprimono la natura insondabile di un male ancora in buona parte avvolto nel mistero, come suggeriscono i versi che pongono a confronto le opposte posizioni di chi ritiene che la depressione non esista e del medico che ne formula la diagnosi. Qui si profila, a dispetto dell’epigrafe che introduceva la prima poesia, una contrapposizione buio-luce con le tenebre a incarnare il male e la luce – una luce, si dice, dal bagliore nucleare perché tanto potente serve per sconfiggere la malattia – a portare la guarigione. Ho parlato inizialmente di tensione verso l’altro come chiave di lettura che dona omogeneità a questa piccola silloge di tre componimenti e in questa poesia finale la tensione è palpabile più che mai: alla madre ci si rivolge con un “tu” e il poeta stesso si sofferma sull’uso dei pronomi: partendo infatti da un dolore non vissuto in prima persona, afferma di scorgere l’io nel tu, nel noi, “di un porto comune / di navi / salpate / fallate”. Si identifica in queste parole, che insieme alle successive si imperniano sulla metafora della navigazione, una volontà di condividere e comprendere il dolore, di affrontarlo insieme a chi soffre, di fronteggiare insieme il mare in tempesta e la bufera delle onde. Di salire, per dirla con un luogo comune, sulla stessa barca a tentare l’approdo alla riva della guarigione. In quest’ottica, al termine della poesia, si impone e rimane la parola chiave: condivisione, anzi condivisione totale, un obiettivo il cui perseguimento è ostacolato anche nella struttura stessa dei versi, dal taglio dell’inciso “di questa tua cecità” il cui posizionamento rende ambigua l’attribuzione dell’aggettivo “totale” lasciando presagire il proseguire della lotta condivisa. (Francesca Del Moro)