Daniele Barbieri porta avanti da qualche tempo una ricerca ritmica costante e coerente, che originariamente prendeva spunto dalla metrica spagnola. Da questa operazione piuttosto originale nasce una versificazione omogenea, che si concretizza in componimenti brevi, suddivisi generalmente in distici di versi lunghi. In passato Daniele utilizzava prevalentemente versi di sedici sillabe, ottonari doppi con accento sulla settima e sulla quindicesima, mentre di recente ha allentato il vincolo sulla lunghezza del verso, e dopo le prime sei sillabe (con accento sulla quinta) spesso ce ne sono dieci, ma a volte anche nove o undici (con accento sulla quattordicesima o sedicesima). In un ritmo generalmente sincopato, si inserisce una trama sonora costruita con grande accuratezza sull’incalzare di ripetizioni, riprese con minuscole variazioni, allitterazioni, rime, rimealmezzo e assonanze. I versi tendono a sollecitare una lettura veloce, trascinante, ragion per cui le pause tra le strofe si offrono come pause confortanti di respiro. Sembra di trovarci in presenza di un flusso di coscienza, che non di rado prende la forma di domande, affermazioni che si ribaltano, si negano o si ampliano, si precisano, in un dialogo asfissiante con sé stesso, in cui i pensieri scaturiscono l’uno dall’altro, spezzandosi vicendevolmente, specchiandosi, tallonandosi, sbocciando dalla pagina bianca in un punto apparentemente casuale del loro svolgersi, in barba a qualsiasi consuetudine riguardante l’articolazione del discorso. Se in Distonia, l’ultimo libro di poesie di Daniele Barbieri, si indagava soprattutto il rischio di scomparsa delle parole, il dissolvimento di ogni possibilità di comunicazione, in uno svuotamento di significato a metà tra il temuto e il desiderato, i testi più recenti fanno spazio a un dialogo io/tu in cui ci si rivolge a un’interlocutrice femminile, ora con dolcezza e malinconia ora dando voce, anche attraverso immagini violente e inquietanti, al dolore bruciante della perdita. Ne risultano poesie d’amore originali e struggenti, ammalianti canti della fine, in cui non si ha paura – e questo è un tema che anticipa quello che forse sarà il prossimo libro di Daniele – di giocare, anche in chiave parodica, e donare una nuova veste e una nuova luce alle parole abusate del cosiddetto “poetese”. (Francesca Del Moro)
Le poesie che Vanni Schiavoni presenta oggi potrebbero costituire il nucleo di una raccolta a venire ma risultano in sé compiute, componendo un riuscito poemetto in cinque quadri. Quadri che coincidono con altrettanti ritratti di persone, attraverso i quali si conduce un’esplorazione del tema del lavoro, qui indagato in mancanza di un contesto spazio-temporale con il sospetto che possa abbracciare qualunque luogo, qualunque epoca. Perché il lavoro in fondo è sempre lo stesso, è un portare avanti una “vita abituata al tondo”, per citare un verso di Salentitudine, il libro uscito per LietoColle nel 2006. Un susseguirsi di ripetizioni giornaliere, innescate dal suono della sveglia, per molti ancora quando è buio, e culminanti con il ritorno a casa. Ed è proprio durante il ritorno, o in altri momenti di “assenza” o “pausa” dal lavoro che scaturisce la riflessione sullo stesso: i marinai che hanno abbandonato il mare e che si ritrovano a fare i conti con il proprio percorso dalla prospettiva insolita della terraferma; il militare che torna dalla famiglia e l’operaio che rincasa; lo zio contadino rievocato attraverso il ricordo. Questi ritratti gettano una luce vivida sul lavoro che si rivela nella sua contraddittorietà, in quanto quotidiana schiavitù (come lascia intuire l’ultima poesia) ma anche fattore identitario (i marinai a riposo perdono in qualche modo la presa su sé stessi) e motivo di dignità (come nella figura dello zio contadino). Con uno sguardo acuto e pieno di affetto, che tuttavia non cerca mai di suscitare esplicitamente empatia o commozione, Vanni Schiavoni ci permette di osservare da vicino queste persone, come in un close-up che svela spietatamente tutte le imperfezioni, sapendo tuttavia che è in esse che risiede la bellezza. I pensieri vorticanti, i silenziosi monologhi dei ritorni a casa vengono indagati a fondo, aprendoci uno squarcio nella coscienza di queste persone, con un linguaggio incisivo, pregnante, talvolta aspro, che culmina nel magnifico verso finale. Un salto all’indietro di molti secoli, che fa pensare a una legge soggiacente alla natura umana, una legge cui già si tentò i ribellarsi e contro la quale la rivolta dal basso sembra ancora essere l’unico tentativo da ripetere. (Francesca Del Moro)