sotto i tetti e nei riquadri / di cielo indaco / di Roma
Al centro della poetica di Elisabetta Destasio c’è sempre Roma: anche quando non viene esplicitamente citata, se ne avverte la presenza. Si possono vedere l’azzurro unico del cielo romano, i pini in controluce, i monumenti maestosi, la modernità e la decadenza. Sembra di sentire le voci che popolano le strade e probabilmente quell’ombra che passa furtiva tra i vicoli, che s’intravede appena e che fugge via, è l’ombra di Pier Paolo Pasolini: il poeta amato, maestro e amico di famiglia, punto di riferimento imprescindibile nel lavoro di scrittura di Destasio. Una scrittura votata a raccontare il dolore e la sofferenza: di sé stessa, ma anche degli altri. Lo sguardo di Destasio è attentamente rivolto agli ultimi, a coloro che soffrono nell’indifferenza del mondo. A essi dà voce, attraverso la sua poesia, prova ne sia il titolo di un’opera alla quale sta lavorando: Donne senza voce, racconto/testimonianza di donne nel sud est dell’Africa. Nella raccolta di prossima pubblicazione intitolata Da luoghi profani è presente in modo prepotente l’amore: sono rimasta / dentro alle carezze o mi batte tutto, come una primula, / sono pronta / quasi a sbocciare fino ad arrivare ai versi non vanifichiamo nulla / rendiamoci eterni, eterni e dammi / il tuo fiato / ti prego, / qui: / proprio dove mi batte Roma. Eccola di nuovo, la città eterna, eternamente amata e a volte detestata, luogo profano permeato di sacralità, dove ogni giorno si soffre e si ama. E dove ogni giorno si combatte, con rabbia, anche se a volte con armi spuntate, anche se a volte si è soli. (Enea Roversi)
Sergio Rotino è un poeta che, piuttosto che pubblicare forsennatamente, preferisce portare avanti con grande cura un lavoro che, in questo caso sì, si potrebbe definire propriamente di ricerca, nel senso che porta avanti una costante sperimentazione su stili e linguaggi anche molto diversi. Ha appena pubblicato un libro dal titolo Cantu Maru, in cui utilizza una sorta di lingua salentina inventata, ottenuta assemblando in vitro parole provenienti dalle parlate diverse di un’area piuttosto ampia del Salento. A prevalere nella raccolta sono i ritmi sincopati, le sonorità ossessivamente ricorrenti, scure, a scandire la perdita con la forza e la pazienza di una lama che scalfisce la pietra. Uno stile molto diverso da quello di “Loro”, il suo primo libro al quale alcune delle poesie oggi presentate sono più vicine, innanzitutto per l’uso della lingua italiana, ma anche per il ricorso ai versi ipermetri, tanto lunghi da richiedere un formato orizzontale. I versi lunghi costringono la voce a una corsa ponendo sporadiche pause di respiro coincidenti con gli spazi bianchi della pagina e trascinando con sé assonanze e figure del significante che valgono a offrire possibilità di segmentazione del ritmo. Come Sergio stesso racconta in un’intervista a Versante Ripido, la sua poesia “chiede uno sforzo al lettore”, non vuole che se ne stia spaparanzato a ricevere qualcosa di immediato, pantofole ai piedi. Un approccio evidente anche nei versi che presenterà oggi, in cui alcune fiabe vengono rivisitate sfumandone i contorni, ampliando i confini delle possibili interpretazioni: riconosciamo fatti e personaggi di Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso, Biancaneve e La bella addormentata nel bosco, che si caricano di suggestioni e significati ulteriori, in chiave psicanalitica, come è tipico della fiaba, ma anche aprendo alla fantascienza e al noir, le cui atmosfere erano già presenti nell’opera prima dell’autore. Opera prima incentrata sul tema della paura, che oggi ritroviamo in un altro componimento in cui le lunghezze dei versi si normalizzano senza rinunciare a un fluire incalzante e ansiogeno. (Francesca Del Moro)