Premio Bologna in Lettere 2019
Sezione C (Poesie singole inedite)
Giorgia Monti, Algebra
Prima classificata
Disegno di precipizio, sincretismo e disseccamento nell’Algebra di Giorgia Monti
Se è mai esistito un territorio attraverso cui i tragitti biologici e cognitivi della corporalità del vissuto raggiungono le profondità ambigue del poetico ed oltre, allora è proprio in questo luogo acheronteo, poco modulabile se non nelle sue repentine alternanze, che la poesia di Giorgia Monti trova il suo coagulo di dicibilità. Esiste un dolore maestoso nei sintagmi fondanti l’incipit del suo Erano litri: quel “disegno di precipizio /ala statica/segno di grandezza” che, lungi dall’essere lo spettacolo vibrante di un corpo afflitto da piccole catastrofi, per mezzo delle quali si compiono continue e destabilizzanti mutazioni di forma e sostanza, delimita infatti uno spazio ontologico in cui, secondo la tecnica dell’esplorazione e del frammento, l’Io racconta il soggetto còlto nel suo amarissimo reificarsi, in virtù di un potente vettore erotico che nel proprio fondo occulto lascia agire un’epifania rovesciata di segno, nella cui matericità “l’interdizione fra i mondi” è soltanto “Il biondo pulviscolo stellare/che racconta di una fine”. Il cuore è qui messo a nudo e pulsa sangue nel costato, generando un diagramma emozionale sempre più vasto e asimmetrico. Solo il codice deviante della poesia può dominare infatti questo riscatto estetico dalle nebbie della complessità incombente; soltanto il pathos deteriore dell’irrealtà polimorfa che, come un’antimateria, attrae e mette continuamente in discussione il caos, può districare il corpo dalla condizione di perdita in cui non è più possibile percepire la Bellezza. “Concrezione di volontà/ divenire di polvere a condensa/ sale amaro”: in questo assemblaggio di memorie quasi cliniche, i condòmini intrusi che albergano l’affollato organismo della voce narrante non sono soltanto incrostazione, deposito di scorie anamorfiche, ma presenze che vivono in totale indipendenza rispetto all’Io.
Il paradigma che sottende invece il bellissimo Algebra è quello della verità disseccante, che mescola i suoi detriti in uno spazio sincretico la cui cifra stilistica risiede nell’esemplarità di un’esperienza teatralizzata: “Solo uno sbattersi di lingue naufraghe /e un fottersi d’insiemi /rinforzo di calotta artica”. Nella partita tra corpo e mente, la Monti rende infatti, come in precedenza, il caos statuto ontologico di eros, ma ora, nel continuo perdersi e ricomporsi delle forme “in particelle filamentose/il mio e il tuo DNA/sono nulli”, le parole della comunicazione, appena pronunciate, divergono dalla loro stessa sostanza per annidarsi in una tragicità nascosta e quindi insita in una compresenza di consapevolezza e dolore. Le parole sono spazio, questo sembra suggerire l’autrice, ma uno spazio libero e cangiante dove l’onnipervasività della perdita e dell’errare sembra voler costruire il teorema di un’infelicità congenita prima ancora di disperdersi nuovamente nel tentativo di una circolarità infinita: “Abbiamo provato le misure./Erano litri./Ho srotolato il cerchio/partendo dal punto.”
Alla tragicità del tempo e delle misure, risponde quindi una riflessione intesa in termini di finitudine: il sentimento di incombente catastrofe è il risultato di una topografia della morte, fragile e costantemente messa in pericolo, una “multitude affolée”, come dice Artaud, in cui il corpo della poesia è una voragine da cui si dipartono innumerevoli segni, che è possibile interpretare se si vuole intraprendere un processo di autodistruzione. La fissità della forma non è dunque che una chimera, l’Io è costretto ad adattarsi alla visione di un mondo scomposto e scompaginato, permettendosi allo stesso tempo di esaminarlo da uno specifico punto di vista, senza cadere nella dispersione ontologica della totalità: “Quando vieni/e io ricucio i passaggi/Mi faccio uovo/Disinnesco la cova/e smetto di sentire”. Quella che viene presentata e si rivela è una nuova bellezza, quella del frammento che annulla il tutto e lo smembra. Pur conoscendo delle cavità più remote, ogni singolo verso si sottrae però ad ogni volontà di ragionamento, poiché è esso stesso pensiero, un attante chiamato a condividere un’esperienza.
Superati gli organi di senso e attraversate le profondità della carne, non restano che le immagini più allucinate, quelle di un teatro esistenziale in cui l’oggetto d’amore si fa spirale che trascina il senso delle cose e la possibilità stessa che esse possano essere lungamente pensate. Una nuova, aberrante, Bellezza annienta dunque per sottrazione semantica il presagio di una realtà futura, di una proiezione vitale in un museo delle ombre. Adoperando il calviniano “sguardo dell’archeologo”, le schegge “di lettere svinate/e senza lingua” rappresentano, nell’algebra sgranata e imperfetta dell’autrice, soprattutto i reperti di una disfatta personale: la loro importante funzione è solo quella di prolungare la memoria di un corpo che si sente, ad ogni passo, sempre più estraneo. Si comprende dunque il dolore della voce narrante nell’aver mancato l’occasione di farsi, come direbbe Heidegger, “luogotenente del nulla”, umanizzando e sporcando le pagine di un’autobiografia corporea da sfogliare, di accidente in accidente. Al segno chiaro del linguaggio, corrisponde sul versante del significato, lo spessore semantico dell’oscurità come “un calore bianco/ senza denti”. (Antonella Pierangeli)