Si parte sempre dall’inizio, nel nostro caso specifico dall’epigrafe in cui appare la prima e forse unica sentenza del libro (La produzione di amore, Dot.com Press Edizioni) in cui viene affermato che ci sorprende sempre che il nostro stesso sangue non abbia sapore umano. Il che potrebbe indurci a innestare nel corpus dell’opera il tema della disumanità. Ma è una disumanità fin troppo umana, che non è propriamente vissuta all’insegna del sangue. Certo, la corporeità e il materialismo fibrillano, sebbene solo a tratti (solo due occorrenze: “l’insolita ambigua questione di corpo a placarmi / la voce”; “mi muta / mi mutila / mi scarta / quella dimensione di tempo / barattata al mio sangue”), nelle pieghe del sottotesto, ma non invadono la narrazione, se di narrazione si può parlare. Difatti siamo dinanzi ad una drammatizzazione sviluppata attraverso giustapposizioni di aporie o comunque di gesti polivalenti, sempre in progress e mai assoluti o, se preferite, spesso in regress e sempre relativi.
Relativi a chi o a cosa?
Relativi all’uso che se ne fa e al conseguente abuso che ritorna al soggetto agente, o meglio ai soggetti che disegnano le linee lungo le quali dipanare le azioni. Azioni mentali e introspettive, che non sbrogliano la matassa e che anzi si dichiarano spesso irrisolte. Del resto la produzione di amore non può essere considerata una risoluzione. Caso mai uno sfinimento incondizionato, o magari fin troppo condizionato. In tale ottica, lacanianamente parlando, in questa opera prima c’è un’evidente «offerta di significante». Il fatto che il significato passi in secondo ordine (servitù) rispetto al significante (sovranità) sembra, a tratti, «strategico», assume cioè i caratteri di un funzionalismo dove il soggetto, per poter esistere deve nutrirsi di tanti piccoli punti, ma non necessariamente da collegare per arrivare a tracciare una linea unaria. C’è il caso che le intenzioni si indirizzino verso il contrario, o comunque che siano alla ricerca di una sorta di riconciliazione. Non si tratta di creare una linea che colleghi i punti disseminati e lasciati a decantare lungo il percorso, ma di creare un asse semantico – per dirlo con Bataille, o più precisamente per come Barthes inquadrava Bataille – inaudito o pervertito dove scandagliare la natura di ogni punto. Ovviamente non per definirli, forse per sospenderli, o comunque per fissare (con l’inevitabile dissoluzione che è “dovuta” ad ogni fissaggio) l’idea di un luogo (elettivo) molteplice da cui parlare. Non si tratta di dire l’istante, ma propriamente di parlare «con» l’istante in modo che il soggetto possa differirsi nel reale e quindi aver-cura-di-sé, anche se ciò dovesse avvenire attraverso una perdita. Che il reale sia poi veramente vissuto o solo letterario è irrilevante, perché qualsiasi frammento (o scarto) di realtà una volta messo su carta entra in un regime di drammatizzazione. Da un punto di vista complessivo, il background lacaniano dell’autrice rinviene a piene mani e chiaramente nell’opera, anche e soprattutto nella plusvalenza delle immagini evocate.
Tre versi tra i tanti: “sono entrata in me / sto. // dove marciano i miei frammenti di porosità”.
“i frammenti di porosità”, è un realia, secondo la definizione che ne dava Agosti è un termine-oggetto, ovvero un’immagine, o meglio ancora stabilisce una sorta di fissaggio ma allo stesso tempo conferisce al fissaggio una natura pronta a sfaldarsi. Non mi stancherò mai di dire e ribadire che la poesia contemporanea è costellata di doppi movimenti, talvolta inconsapevoli, talvolta invece studiati e quindi offerti come gesti voluti e caratterizzanti. Gorini mette al lavoro il doppio colpo del diritto e del rovescio che si trasforma, per così dire, in una doppia colpa, non tanto da espiare, quanto da evidenziare e dove possiamo riscontrare tutta la fragilità – ma anche la consapevolezza, se vogliamo – di un corpo alle prese con il proprio continuo, implacabile differimento lungo quella strada dove ogni passo in avanti è sempre scandito e caratterizzato per l’appunto da un colpo e da una colpa, da un’obbligazione e da una dissipazione e da tutta una serie di aporie la più evidente delle quali è riferita alla dicotomia prossimità/infinità, ovvero alla crisi che si instaura tra la volontà di rendersi prossimi alla propria immanenza e la tendenza ad incamerare l’idea di un dispendio come risposta ad una infinità che non riusciremo mai a toccare con mano. Sulla scia dei doppi movimenti, parafrasando (e anche mortificando) un passaggio derridiano[1] che ho già citato in altri luoghi diversi da questo, basato sulla complementarità e insieme sull’opposizione di una omofonia (du/dû), si tratta di due o del due o di ciò che è dovuto al due, sempre e comunque. Se la coppia du/dû funge, nel suo doppio (in realtà plurimo) movimento, da motore per la narrazione o per ciò che si potrebbe definire una narrazione diversamente funzionale, si tratta di mettere il bastone tra le ruote, ovvero di creare – idealmente – un’interruzione del flusso al fine di esaminare gli elementi che concorrono alla creazione dell’ordine del discorso. Sorvolo sugli assi paradigmatici e sintagmatici (per quanto una certa giustapposizione tra verticalità e orizzontalità nell’ordine dei diversi piani d’esposizione sarebbe da approfondire) per arrivare al du/dû.
Da un lato da lei o di lei o del lei (du), e dall’altro lato ciò che è dovuto a lei (dû).
Dunque, “lei” è il soggetto scrivente (il parlante e/o il parlato, parlêtre [anche nel senso di lingua per l’essere: par l’être]), ciò che proviene da lei e ciò che è proprietà di lei, ma “lei” è anche la scrittura, ovvero l’estensione-di-lei-autrice, la sua esposizione. E qui avviene qualcosa, il du/dû inaugura un altro “due”: deuil e duel (lutto e duello). Quella che ho definito “proprietà” (che sarebbe più appropriato ribattezzare in «appartenenza») nel momento della sua estensione diventa «perdita di proprietà» (ed è proprio a partire da quella perdita che io posso permettermi di parlarne o, se preferite, di «parlare il parlato»): ecco quindi la figura del lutto. Lutto come perdita (anche i procedimenti simultanei di riconoscimento/disconoscimento/differimento entrano, beninteso, nei registri della perdita), ma che permette il raggiungimento di una posizione. Una posizione che, a sua volta, può accadere solo attraverso la sua deposizione sulla pagina: ecco quindi la figura del duello. Sui registri di una possibile estensione, se l’accadimento è una caduta, questa nuova coppia non può che esistere su un piano di scontro; e questa sarebbe una ulteriore accezione del duello. Entrambe le figure, quella del lutto (appartenenza vs perdità di proprietà) e del duello (cadere vs accadere / deposizione vs posizione) esistono solo se si costituiscono a partire da se stessi, a partire “dal” lutto e “dal” duello. Senza un procedimento (dispositivo) auto-riflessivo non c’è estensione degna di questo nome. Non bisogna credere all’autrice quando dichiara – sebbene all’insegna del differimento in un’altra-da-sé o in diverse altre-da-sé – di non avere strategie. La strategia primaria è quella di farsi carico del lutto derivante dal duello tra il parlante e il parlato e di veicolarne le infinite sfaccettature. Non a caso l’autrice non ha scritto «la produzione dell’amore, ma «la produzione di amore», non il semplice oggetto della narrazione ma un soggetto, sempre inevaso, che per così dire si assoggetta e si rende succube all’oggetto del suo desiderio. Beninteso, quello delle sottoposizioni è un discorso che andrebbe approfondito in un altro contesto più ampio di questo. Mi si consenta un avvertimento (da prendere, come sempre, col beneficio d’inventario): quando l’autrice invita l’altro (“tu e tutti”) a fuggire da questo sé in duello «con» la produzione (sarebbe qui necessaria un’ampia digressione a partire dall’improduttività batailleana) e «con» l’amore, in realtà si sta rivolgendo a se stessa. È lei il soggetto in fuga e gli oggetti (gli altri «trattati» sull’asse uso/ab-uso) a cui dona la possibilità di una fuga sono solo proiezioni, dispositivi del (mal)funzionamento della macchina umana.
[…]
appiccico addosso al corpo le figurine
della mia pena e inconducibilità
poi tu e tutti vedete gli occhi che sono
residui della mia esistenza
vedete che vedo
vedete in segno della mia oscurità
e mi ci inondo
allora fuggite
via via potete fuggire
lo dice anche la mia bocca
incerta trepidante sformata del riso
lei lo dice
fuggite allora
[allora fuggite]
Risulterà oltremodo evidente la correlazione tra le figurine della pena e il segno della propria oscurità, così come sarà chiaro che tutto si svolge (si avvolge) all’insegna dello sguardo e della fuga. Lo sguardo che rinvia allo specchio e la fuga che può accadere solo attraverso il tramite della bocca, ovvero nel momento in cui si costituisce il linguaggio. Qui, ma anche altrove (è emblematico in tale ottica e sulla falsariga della cosiddetta “fase dello specchio” il sintagma “stella madre”, che rappresenta il leit motiv della terza parte dell’opera), si tratterebbe di individuare un codice, magari evidenziando la serie di segni (manifestazioni del logos allo stato grezzo di significanti) disseminati nell’opera e tracciando poi un diagramma di interazione tra i vari elementi (l’asse semantico di cui si accennava prima). Una volta fatto questo, si dovrebbe individuare la serie di figure (trasposizioni del logos in chiave narrativa come possibili – ma sempre inesaustive – significazioni) che nascono a partire da quei segni e che si propongono come correlativi, complementi o supplementi. Le due serie sono sempre interagenti, ognuna delle due implica l’altra, ognuna delle due resiste all’altra assorbendola dentro il proprio sé. C’è come una inconscia voglia di compensazione che spinge l’autrice a rendere manifesto quello che si potrebbe definire «desiderio dell’equilibrio» e che si manifesta attraverso una scansione decisamente calibrata. E la scrittura, si sa, non può rendersi immune al desiderio. Per quanto possa tentare di fuggire (o di far fuggire gli altri per poter fuggire essa stessa) il ritorno-a-sé è l’unica incombenza che sarà sempre presente. Questo accade -all’insegna e per colpa di un altro “due”- perché l’eredità e l’incidenza lacaniane spingono l’autrice a sposizionarsi lungo le obbligazioni paradigmatiche del je/moi. Se «je» è il linguaggio (o comincia a vivere [si legga: a disseminarsi] solo nel linguaggio o attraverso il linguaggio per accedere allo status di soggetto) allora «moi» è ciò che precede il linguaggio. In tal senso il soggetto non è «je», il soggetto è sempre l’altro che si crede di aver estromesso, ma che invece persiste e resiste, anche solo come traccia fantasmatica. Se il linguaggio continuerà a disseminarsi, allora lo specchio si moltiplicherà all’infinito. E il desiderio continuerà a guidare i propri passi. Il tutto senza sottovalutare l’imprinting ricorrente dello sguardo. Non solo il semplice vedersi, ma anche il «vedersi visto» dall’altro nel riflesso alterato di sé restituito dallo specchio. Perché ci si vede (o si crede di potersi vedere) nello specchio come soggetto, ci si guarda e non c’è un riconoscimento immediato, se non filtrato da quella traccia fantasmatica (che è il soggetto prima del soggetto) che riflette non tanto l’immagine (la “stella”) quanto il simbolico (la “madre” idealizzata come “stella”). Non è un caso che gli occhi (il segno) vengano definiti come residui dell’esistenza (figura correlata al segno e derivata dal segno) e che in essi regni la dimensione -per quanto metaforica- dell’oscurità. In prima battuta perché la letteratura si nutre di scarti, ma questa è una cosa risaputa; in seconda battuta perché quell’oscurità rappresenta il cuore al nero della luce, in poche parole è quella «figura di figura» che consiste nel duello tra l’accettazione e il rifiuto, tra il condursi al lutto e il farsi condurre dal lutto. E sulla falsariga del nostro possibile diagramma di interazione tra gli elementi, sarà abbastanza agevole tracciare una linea tra quegli occhi inondati dall’oscurità (p.16) e quel “nero grave spina in gola” che “mi opacizza mi satura i toni” e che d’improvviso si tramuta in un “sole” (pp. 48-49). Ecco il cuore al nero della luce, ovvero quel «moi» che vive all’interno del «je». In tal senso, e per concludere, ciò che «è dovuto» a lei è anche ciò che ha ricevuto fin dalla nascita da quel «moi» da cui il «je» si è costituito, ovvero da quel «moi» che ha elargito al «je» il dono del linguaggio, ovvero ancora la possibilità di divenire soggetto o di spacciarsi come tale. (Enzo Campi)
[1] Cfr. J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Trad. A Cariolato, F. Ferrari, Abscondita, 2003, pp.54-56
[ma tu] non cerchi il mio corpo
cerchi un corpo – un’ombra pieghevole
non mi celebri l’anima, pronto a separarne
un pezzo – all’occorrenza reputarla tediosa
non sogno una congiunzione di artifizi
[ma tu] non ami ciò che parlo d’essere
preferisci tagliare d’istinto la mia trasparenza
e disperderti in quell’aria circostante dove
giochi il tuo tempo in
sequenze ripetute
[ma tu]
*
quelle volte in cui
ripongo non senso
rigirandola come anelli
tra le dita mutevoli
in plurime direzioni
si staccano si inanellano
vuote porzioni si gettano a
concorso al supremo discorso
prive di lucidità apparente
note ironiche esposte rimate
quelle volte in cui
non mi conosco
mi riconosco
– sola
nel placare in scrittura
un’infinita catena
per uso di
taglio
[scrittura]
*
si tratta di
due solitudini
del tuo
battito incoerente
del tuo
crederti acceso e diretto
del tuo
muoverti
fermo
restando
crepe dal tuo sguardo
prenderesti
les plus desert lieux
[si tratta di due]
*
figlie
in condivisione di sangue
il respiro femminile che pensavo avessi
[io / tu]
ti racimolo separata nel mio silenzio
sei tu l’eco della tua costanza e assenza e ancora
ti ascolto e persevero
nel domandarti un posto e ancora
ti attendo e ti supplico – intensa
e grave e ancora persevero
nel domandarti chi vuoi
che io sia
[in condivisione]