Premio Bologna in Lettere 2019 – Le note critiche – Guido Turco / Andrea Donaera

Premio Bologna in Lettere 2019

Sezione B (Opere inedite)

Primo classificato

Guido TurcoUn’ultima cosa prima di partire

 

 

L’intensa presenza di un sentimento del tempo contingente (comunque cosciente di tutto il pesante bagaglio ereditato dai temi e dagli stili introdotti nel secondo Novecento) determina la costituzione di Un’ultima cosa prima di partire, raccolta che si colloca di diritto in un particolare ventaglio di testi (per dirne alcuni: Mazzoni, Mancinelli, Bortolotti e, tra i più giovani, De Lisi, Burratti e Ramonda) che ultimamente provano a scrollarsi di dosso le stanche abitudini di recupero e rimaneggiamento della tradizione post-montaliana presenti in molta poesia dei nostri anni Dieci.

Turco evade, infatti, dalle presunte esigenze di nuove sperimentazioni o neo-lirismi, ingaggiando un dialogo con le forme di poesia che (da oltreoceano, ma negli ultimi anni anche in Italia) propendono verso un ripensamento dei generi “puri” e delle “tendenze” di scrittura in apparenza assodate. Il respiro e il ritmo si fanno dunque adiacenti alla prosa; la versificazione si costituisce attraverso blocchi tematici e semantici; la realtà è affidata a testi che sono come «case» che «si riempiono di cose inutili». È evidente che per Turco urge un ritorno a quella lingua che si fa megafono sanguinetianamente (o carverianamente) ideologico («L’ambiguità mi dà sui nervi. Tu dici polisemia, io dico rottura di cazzo. […] Tu dici non è possibile che tutti abbiano qualcosa da dire, io dico qualcuno lo dice meglio degli altri»), intendendo di conseguenza la poesia non come processo di una descrizione tesa a una pacificazione con le esperienze umane, ma quasi come enumerazione accumulata di vicende private e al contempo oggettive, con virtuosismi espressionisti che però mai appaiono come tali (camuffati efficacemente da “semplice visione”): «Durante il temporale / dall’altra parte dei binari, una donna si pettinava guardando tutto quel grigio / molto più in fondo». Questo può avvenire soltanto tramite una lingua che ancora una volta – dopo gli ormai polverosi, ma sempre utili archetipi, scossoni neoavanguardisti – deve ripensarsi, non potendo più dire le cose come si sono dette finora, in questo nostro inedito contesto post-novecentesco che è concretamente un appallottolato «côté estetico dell’irriflessione» in cui pare possibile solo «disboscare, come unico lascito. Prendere o lasciare».

Rifuggendo un dettato sapienziale – privilegiando la compattezza di frasi/versi severamente asciutte – la poetica della raccolta non si attorciglia mai su pose concettose: racconta con puntualità «le facce inquiete, gli sguardi disillusi e malinconici, / i rituali legati alle partenze, che non ha niente a che fare con i modi con cui si chiudono i libri». Densa e appagante, stratificata ma immediata, la pronuncia di Turco alimenta, tra divagazioni intertestuali e citazionismi (che mai esibiscono la pur evidente padronanza di saperi variegati e numerosi magisteri letterari), una sequenza di testi ragionata, coesa, consapevole dell’allestimento che va compiendo: la necessità di una riflessione, non più postuma, attorno a una soggettivazione in tempo reale delle possibilità della poesia nel contemporaneo, delle posture di un io che adesso è uomo e mostro. Accogliamo, così, la cognizione di un «qualcuno che canti la combinazione di raffinatezza e crudeltà». (Andrea Donaera)