Premio Bologna in Lettere 2019 – Le note critiche – Patrizia Sardisco / Francesca Del Moro

Premio Bologna in Lettere 2019

Sezione A (Opere edite)

Patrizia Sardisco, Eu-nuca

Finalista

 

 

 

La poesia di Eu-nuca di Patrizia Sardisco ha il merito principale di un’estrema chiarezza nella complessità. Chiaro è infatti il gesto politico, l’atto d’accusa mosso nei confronti di un’Europa che per molti rappresenta ancora un ideale positivo, una realtà che non è dato mettere in discussione. La poeta punta il dito con decisione verso quella che, come nota Anna Maria Curci nella prefazione, è una figura assai lontana dall’incantevole fanciulla del mito ma è piuttosto una vecchia spilorcia ripiegata su sé stessa, impegnata nella difesa dei propri denari e nel rafforzamento delle proprie quattro mura. Il neologismo che dà il titolo al libro rende subito con grande pregnanza la postura tipica della vecchia Europa, quella di offrire le spalle, di voltarsi, crudele e indifferente, verso chiunque richiami la sua attenzione e possa rappresentare una minaccia per il suo quieto vivere. Ma, se “eu” sta per “European Union” e non ha niente a che vedere, come nota ancora Anna Maria Curci, con il benevolo prefisso greco, non è un caso che si sia scelto il riferimento alla “nuca” per indicare il gesto di voltare le spalle. La parola composta “eu-nuca” infatti suggerisce inevitabilmente un’idea di sterilità, riconducibile qui al rifiuto del contatto con l’altro da sé, da cui l’impossibilità di generare, di essere umanamente, politicamente e culturalmente feconda. Se la parola “eunuco” definisce una persona di sesso maschile sottoposta a interventi di mutilazione genitale tali da determinarne l’impotentia generandi e talvolta anche l’impotentia coeundi, volta al femminile serba in sé il concetto di infertilità e di impotenza, a cui si aggiunge l’innaturalezza della definizione. È questo il primo segno dell’inventiva linguistica di cui Patrizia Sardisco dà prova in questo libro, cui segue in una delle prime poesie un’ulteriore definizione dell’Europa che deforma la dicitura “vecchio continente” in una sprezzante “vecchia incontinente”. Un appellativo questo che ci dà l’idea di come l’Unione europea, nata meno di un secolo fa (vecchia troppo giovane, recita uno degli ultimi versi) sia vittima di una precoce senescenza che l’ha resa solitaria e avara. Ed è grande la perizia con cui l’autrice riesce a mantenere credibile e coerente per tutti i 31 componimenti del poemetto la personificazione dell’Europa, a volte indicata in terza persona e più spesso apostrofata con un “tu” che fa suonare ancora più veementi le accuse scagliate  (“fai paura” è la chiusa fortissima della poesia numero 0). La vecchia ci appare come una caricatura, quasi un personaggio della commedia dell’arte o uno Scrooge di dickensiana memoria: la vediamo intenta a sbirciare i cassetti del salotto buono, a serrare infissi e abbassare saracinesche, a rafforzare i muri componendone le fratture con quella che viene chiamata “colla fobica”, una metafora che è solo uno dei molteplici riferimenti alla paura, altrove definita con il termine usato in psicologia “egosintonica”. È la paura della vecchia che qualcuno possa violare la sua proprietà mettendo le mani sulle sue “piccole monete allineate”, la paura dell’Europa nei confronti dei migranti che, entrando nei suoi territori, potrebbero compromettere il suo equilibrio “omeostatico”. Ma anche la paura che, dalle finestre mal chiuse, possano filtrare “spifferi ideali” (un vento utopistico che dovrebbe spirare da sinistra) ricordandole i valori espressi dalla sua costituzione ma già per lei “svalutati” al pari delle vecchie valute e rispolverati di tanto in tanto come formule retoriche per darsi un contegno. Il contegno della beghina che allunga l’elemosina, lascia cadere un fiore nel mare pieno di cadaveri e subito si volta offrendo la nuca e facendo bene attenzione a non bagnarsi i piedi e a non sporcarsi le mani. La vediamo dunque intenta a ispessire i propri confini, in ossequio a quella che Patrizia Sardisco chiama “estetica economica” perché ciò che davvero interessa all’Europa sono i grandi numeri, a dispetto degli individui, le cifre e i grafici che rappresentano il feticcio della cosiddetta “crescita”. Ergendo muri e steccati, l’Europa contrasta la pressione di ciò che è “extra”, nel senso di esterno a lei, extracomunitario, ma anche un di più, qualcosa che non serve: un extra luogo, un no-logo (e qui è evidente il riferimento a Naomi Klein), un non omologo e, come si dice altrove, “qualcuno che non ha il pigmento giusto”. Attraverso la paura l’Europa instaura il suo imperio, che si fonda tradizionalmente sulla divisione, trova la propria identità per via di differenziazione. Una differenziazione che passa attraverso il ricorso frequente alle negazioni e alla sequenza omofona nord – no – noi (la localizzazione geografica, ma anche un riferimento alle idee leghiste in Italia, e poi il diniego, il rifiuto nel porgere la nuca, e infine un “noi” che non è accogliente, empatico, inclusivo, ma si definisce in quanto contrapposto a “loro”). Una contrapposizione evidente anche nell’uso ribaltato della citazione da Quasimodo “l’urlo nero” che ci ricorda che proprio dalle urla suscitate dai massacri della seconda guerra mondiale è nata la volontà di pace che ha fatto inizialmente da collante tra i Paesi europei. Un’ispirazione iniziale che oggi viene rinnegata quando si ignorano identiche urla per il fatto che non riguardano i nostri morti. Già da quanto detto fin qui emerge il ricorso, da parte dell’autrice, al linguaggio specialistico afferente a molteplici discipline, in sintonia con una delle principali tendenze di quella che si usa definire come “poesia di ricerca”. Si spazia così da termini propri della geologia come “pangea” a termini medici (area cieca, scotoma, catalessi), della fisica (orbitale), della chimica (disaggregazione), della biologia (omeostasi, complessione), delle arti visive (campitura, disegno cieco), tutti funzionali a rafforzare il ritratto grottesco della vecchia Europa. All’utilizzo dei linguaggi settoriali si accompagna un uso estremamente consapevole della lingua: una lingua ridotta all’osso, affilata, potremmo dire “fredda” e dura, fortemente icastica, ricchissima di figure foniche e con un forte ricorso alla polisemia. Sorretto da un ritmo basato su assonanze, allitterazioni, anafore, sporadiche rime e rimealmezzo, il discorso procede con una logica stringente, come una requisitoria, che preferisce gli strumenti retorici agli espedienti emotivi. La commozione scaturisce comunque da certe immagini che Patrizia pone sotto i nostri occhi senza aggiungere altro, come la fila dei sacchi di cadaveri allineati sulla spiaggia. La loro cerniera diventa “una forzata chiusura lampo della storia”, la storia che negli ultimi versi si profila inesorabile e che in futuro non mancherà di giudicare l’Europa (ci tormentano i gesti dal futuro / i nomi da dover dare a ogni impronta persa nella corsa). Alla quale Patrizia riserva una fine terribile: ce la rappresenta infatti impiccata con la stessa corda che, funambola imbracata, la tiene sollevata al di sopra del mare che tanto teme, la corda che la soffocherà “con le mani ancora infilate nelle tasche”, attaccata fino all’ultimo all’unica cosa che le preme, il denaro, la sua proprietà. Nondimeno in questi versi così duri si affaccia una speranza, si profila la possibilità di un cambiamento: “agire le cose scritte”, tornare ai propri principi fondativi, a ideali di accoglienza, al rispetto della vita umana.  (Francesca Del Moro)