La sorpresa dello sguardo. I ritratti intimi di Dino Ignani
“La luce del ritratto risplende dal suo fondo oscuro. Emana dall’astro eclissato per sé che definisce un soggetto. Ciò che visibilmente scompare nel ritratto, ciò che in esso riesce a sottrarsi ai nostri occhi sotto i nostri occhi, sprofondando nei nostri occhi come all’infinito, è lo sguardo del ritratto” (Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Cura e Trad. Raoul Kirchmayr, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, p. 55)
Nancy si riferisce propriamente al ritratto dipinto. La stessa cosa può dirsi di un ritratto fotografico? Sarebbe difficile e prolisso esplorare le innumerevoli possibilità di argomentazione dell’interrogazione profusa. Ma siamo qui comunque per argomentare o quantomeno per indicare qualche strada da percorrere. Entrambe le tipologie di ritratto sono schiacciate su un supporto, ma è anche vero che entrambe potrebbero possedere profondità (imitazione della tridimensionalità?), a seconda delle intensità della luce e delle ombre, dei giochi di prospettiva, ecc. Allora la risposta si ridurrebbe alla sensibilità e all’energia creatrice di chi dispone e usa il pennello o l’obiettivo. Spetta proprio all’energia creatrice conferire forza e spessore all’opera.
L’immagine, che sia fissa o in movimento, è sempre attraversata da linee di forza, che corrispondono, più o meno, al messaggio o alla sensazione che si intende veicolare. Ma non è detto che esse debbano coincidere con le linee di forza della rappresentazione, o meglio della ricezione della rappresentazione da parte di un esterno (luogo o essere che sia). Le linee di forza devono passare attraverso un dispositivo per divenire rappresentative, o meglio per rendere presente la propria presentazione, o meglio ancora per far sì che la presentazione divenga un «presente» (un regalo, un dono). Alla prima energia creatrice, l’artista deve giustapporre un meccanismo, una macchina che possa far traslare la semplice figura sul piano della figurazione. Questo dispositivo è ciò che permette la mimetizzazione dell’energia creatrice. Ecco allora che ciò che arriva, a noi esterni, è una mimetizzazione, o meglio un’imitazione della mimetizzazione. Perché poi tutto accade per reversibilità e per giustapposizioni di imitazioni. Per quanto riguarda la reversibilità, il campo è abbastanza definito: l’energia creatrice imita le linee di forza, le linee di forza imitano il dispositivo, il dispositivo imita la figurazione, ma esistono piani intersoggettivi che permettono di cambiare e confondere l’ordine dei singoli elementi. Per quanto riguarda le giustapposizioni sarebbe sufficiente dire che esse sono, a tutti gli effetti, delle figurazioni, con la possibilità, tra l’altro frequente, di estendersi nei sistemi e nei registri delle trasfigurazioni.
A questo punto, e in tal senso, siamo costretti ad affermare che qui non c’è un sé. Che ciò che si presenta è l’imitazione di un sé. Se proprio dovessimo puntualizzare non potremmo esimerci dall’affermare che qui si parla dell’imitazione di un sé che imita se stesso, proprio perché figurato e raffigurato. E si potrebbe anche aggiungere che ciò avviene allo scopo, ultimo e definitivo, di restituire o comunque trasmettere un’imitazione credibile e riconoscibile. Non è forse il riconoscimento la parola-chiave di qualsiasi tipo di ritratto?
Certo, sarebbe fin troppo semplice liquidare la questione con quanto finora espresso. In realtà bisogna fare i conti almeno con la postura, con l’ebbrezza, e con le tipicizzazioni che, per amor di brevità, andremo a sintetizzare e sistematizzare in poche battute.
La postura del soggetto (che imita l’imitazione di sé), se filtrata da un’inquadratura, da un taglio, da una luce, deve essere considerata come un dispositivo, e quindi come una figurazione.
Messi in posa e posturizzati, i soggetti diventano tipi, esprimono cioè una tipicizzazione. La tipicizzazione qui presentata esprime come una sorta di ebbrezza compassata, che non esplode cioè in maniera, per così dire, cruenta o liberatoria, ma persiste nell’interezza strutturale dell’affresco (il fissaggio). Ebbrezza compassata ma, in un certo senso, compiaciuta, perché c’è qualcosa negli sguardi che trasmette questo tipo di sensazione, quasi come se i soggetti fossero interamente consapevoli dei meccanismi fenomenologici (ma anche psicoanalitici se volete) della sorpresa dello sguardo che sorprende se stesso prima ancora di poter sorprendere l’altro. C’è come uno specchio visibile/invisibile in cui il poeta sorprende lo sguardo e si sorprende allo sguardo della restituzione dell’imitazione di sé. Quest’imitazione è, a tutti gli effetti, una presentazione differita. Presenta un presente protratto nel tempo attraverso il fissaggio di una postura. E la postura, in un certo senso, è la cornice dello sguardo. La postura «custodisce» lo sguardo, uno sguardo sorpreso nella restituzione dell’imitazione di sé.
“[…] Ciò che il ritratto presenta è sempre questa custodia di sé e con essa il modo in cui il sé si custodisce dal momento che si perde. Il modo in cui il suo essere-a-sé ha luogo solo in questo fuori-di-sé, di fronte a sé, in cui il volto sconosciuto a se stesso prende il mondo in piena faccia […]” (Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Cit., p. 58)
Prendere il mondo in piena faccia non è cosa da poco, non è una pratica alla portata di tutti. Si potrebbe addirittura paragonarla ad una pratica che rasenta il «sublime», perché sottende un aggirarsi nei territori del limite o, se preferite, di situarsi sul limite. Esistono due diverse tipologie di sublime, quello matematico e quello dinamico. Noi qui siamo di fronte a un sublime matematico. Perché? Per almeno due ragioni: le opere di Ignani se da un lato rispondono e quindi reagiscono a dei precisi parametri, dall’altro lato si ripetono. Ma non è una ripetizione fine a se stessa, è una «ripetizione drammatizzata». La ripetizione drammatizzata genera commozione. Cos’è la commozione? La commozione è una sorta di attesa, l’attesa che qualcosa accada. Ed ecco l’accadimento: lo sguardo. L’obiettivo, filtrato e guidato dall’energia creatrice, sorprende lo sguardo, raffigura lo sguardo, drammatizza lo sguardo, in poche parole imita le sue componenti strutturali e le sue possibilità rappresentative per fissarlo in un presente. Così lo sguardo diviene presente nella sua presentazione. È tanto lontano da noi perché, in teoria, non dovrebbe essere vivo ma riprodotto a posteriori attraverso un mezzo artificioso. Ma è anche tanto vicino a noi perché ciò che conta non è il corpo che non esiste più ma il corpo che persiste nella sua riproduzione, ovvero nella presenza generata dalla presentazione di sé, dalla ri-presentazione drammatizzata di sé. La tridimensionalità del corpo non c’è più. Cosa sopravvive o, se preferite, cosa continua a vivere? Sopravvive l’arte-fatto, la bidimensionalità di un corpo schiacciato su un supporto che diviene esso stesso corpo. Non più un corpo anatomico, ma un corpo artistico.
Ecco, questo è quello che più o meno cade nella nostra percezione, che accade al cospetto di una foto, di un ritratto, di un’opera di Dino Ignani, ovvero di un’artista che da decenni oramai è impegnato in un progetto rivolto a restituire e drammatizzare gli sguardi dei poeti e della poesia. (Enzo Campi)
http://www.dinoignani.net/
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Articolo originariamente pubblicato il 2 giugno 2016, su: boinlettere.wordpress.com.