Enea Roversi, Incroci obbligati, Arcipelago itaca (2019)
Cose da fare
Far scivolare il tempo
dileguare le ombre
sciabolare il vento
bloccare la tastiera
rovistare i cassetti
indagare nei sogni
convogliare la rivolta
spiegare e dispiegare
mutare l’accento
sacrificare il proprio io
ascoltare il cuore
che batte
auscultare il polmone
la linfa
siglare di rosso
il notes
pregare un nuovo dio
alimentare il dubbio
fare e disfare e poi rifare
studiare la geografia
catalogare i numeri primi
imbrigliare il respiro
ultimo refolo
sul prato aperto
senza confini
con gli occhi chiusi
senza pensare
alle ultime cose da fare.
*
La frana del tempo
La frana del tempo
si propone
rituale di lentezza
con innocenti rughe
e ghiaccio a scendere
colpevolmente freddo
sui corpi danzanti
si affaccia mutevole
dallo sfascio dei balconi
si dispone
con strategie di ragno
e tele tessute a norma
rancori che calano
con voce rauca
su asfalti sempre uguali
dove le distanze
si rapprendono
il tempo svilisce
sostanze e forme
sparge il sale
sulle ferite aperte
espone i suoi stracci
di velluto sudicio
gli stemmi del passato
e le crepe sfacciate
ma più ancora si mostra
il disagio del vivere
alluvione di respiri
che inonda le case
sento il suono del sangue
la violenza usurpata
i movimenti tellurici
di questo cuore malato
che batte ancora
nonostante tutto.
*
[…] Cos’è l’incrocio? Molto semplicemente una metafora attraverso la quale l’uomo si pone al centro del fluire ininterrotto e disordinato della vita offrendosi all’urto, all’incidente. Da qui l’estensione dell’incrocio come «obbligo» e «obbligazione». Obbligare è una parola composta da ob (verso) e ligàre (legare). Il movimento è quello che tende quindi a una «legatura», ovvero a una costrizione. L’obbligazione implica inoltre un certo assoggettamento: è come se si ricevesse su di sé un peso e come se si fosse costretti ad assimilarlo e veicolarlo. Resta comunque da precisare che l’offerta (officio, sacrificio) può e deve rovesciarsi in un dispositivo narativo. Roversi declina il suo essere-nel-proprio-tempo come una sorta di malattia indotta e organizzata in quel gioco che definisce “assai più grande di noi”. […] Se è vero che se ne parla sempre per figure, dobbiamo per forza di cose individuare o, se preferite, idealizzare una presenza, per così dire, fantasmatica all’interno dell’opera. La figura ricalca e sovradetermina quella del “tiratore scelto”, facendolo diventare una sorta di cecchino «aggiunto» capace di colpire il bersaglio con un proiettile di parole calibrate e misurate. Non l’assassino quindi, ma lo stesso poeta. Il “tiratore scelto” è il terzo, insieme testimone e diretto depositario del differimento che l’autore gli conferisce. Se l’io-narrante è costantemente impegnato a scrivere “la lista di ciò che gli serve” (la lista per una dignitosa sopravvivenza?), il terzo, eccedendo e surclassando il tu-poetico, si sente come in dovere (dovere civico e intellettivo, prima che letterario e metaforico) di eliminare tutte le cose che non fanno parte di quella lista. Ma Roversi è conscio del fatto che non si può mettere a morte qualcosa che è più grande di noi. Per questo incede, lentamente ma inesorabilmente, a lavorare sui fianchi del nemico, non tanto per distruggerlo ma per denunciare la barbarie che lo contraddistingue. […] È questa una poesia narrativa che ci informa sullo stato delle cose. Roversi si impadronisce delle lezioni di Pasolini, Saba, Penna (per citare solo tre nomi indicativi in tal senso) prestando particolare attenzione alla quotidianità e quindi alla realtà del proprio tempo, o comunque alla descrizione di un tempo che manca a se stesso. E sviluppa dei codici di veicolazione attraverso i quali diventa possibile per il lettore accedere alle linee della sua coscienza letteraria e sociale. Roversi non si nasconde dietro veli o paraventi e, soprattutto, non ci nasconde nulla, in poche parole: mette in chiara luce il percorso, produce quell’accesso al senso cui si faceva riferimento in apertura. Vista la natura dell’opera, il percorso non può essere fluido, deve anzi giocare con gli intoppi imposti dalla contemporaneità. Roversi però, col suo dettato apparentemente docile e sempre maturo, riesce a farsi giocare dagli incidenti di percorso, trasformandoli in veri e propri dispositivi narrativi. Perché è anche di narrazione che si tratta. Al di là di qualche virata surrealista e di qualche cedimento manieristico (che tra l’altro non diventano mai gratuiti) la struttura complessiva degli “incroci obbligati” ci racconta i vezzi, i vizi, i malanni e le idiosincrasie della quotidianità e lo fa proprio attraverso una disseminazione di obbligazioni. Qui ci si rende conto di come la contemporaneità, pervasa e pervertita dalla globalizzazione, sia costretta a ragionare in termini di bianco e nero, a muoversi su una scacchiera dove per andare avanti bisogna mangiare l’ostacolo di turno. Così come viene ribadito nella poesia che conferisce il titolo all’opera: “Incroci obbligati le nostre strade/ caselle bianche e caselle nere/ e tutto quel peso da sopportare”. (dalla postfazione di Enzo Campi)
Martina Campi, Quasi radiante, Tempo al libro (2019)
I
Le falangi spezzate
sono terra cava
figlia di un padre deserto sterile
madre che contiene il nulla,
appena l’accenno di un sonno insolubile.
II
Ho dormito settimane per tornare simulata,
pallida mimesi a distanza
infinita, simulacro del divenire
corpo trapiantato fuso alla voce
e nulla da dichiarare, se non la candeggina
III
A strappare l’erba nuova
c’andavano i bambini
il pomeriggio, con l’unica voce
d’abisso, ferita aperta
senz’orma di un fondo.
così oggi sai che soffia un vento fortissimo, con i fiori all’infuori e
all’ingiù da tutte le balaustre, e nel tempo di coprirti il viso con la
mano, sento passarti accanto il silenzio gelato dei ghiacciai
sterminati, scintillanti come fucine di diamanti sotto il sole, che ti
farebbero urlare a squarciagola per sentirsi parlare almeno una
parola
[…] Non è più solo un viaggio in sé stessa: si esce dai limiti del proprio corpo/io (un io «randagio, e mai compiuto») per tentare, con dichiarata umiltà sin dal titolo – Quasi radiante –, l’ascesa verso la luce che irradia l’esistenza e, quindi, guardare alla stessa esistenza. E nel fare questo la poesia tenta nuovamente la via del “quasi” poemetto, o comunque di una architettura coesa, precisa, puntuale, che sorregga il discorso; un discorso che aasume i contorni di una confessione e i tratti di una preghiera laica al contempo, scandite in sequenze di tre componimenti introdotti, o anticipati se si preferisce, da una sorta di breve prosa poetica, un “argomento” diremmo se trattassimo del primo Dante; un’architettura solida a cui fa da contraltare (paradossalmente) una sintassi frammentata, franta, disgregata, nella quale agiscono forze di rottura con la tradizionale struttura della frase (frequenti, per esempio, le dislocazioni a destra), “quasi” a voler marcare il territorio cedevole, caduco, indeterminato, della parola che tenta di contenere il pensiero, catturarlo, proprio nel momento in cui ascende […] (dalla prefazione di Fabio Michieli)
Nella poesia di Martina campi, da sempre, il teofanizzarsi della trasparenza delle cose, l’attraversamento scosceso che anela al raggiungimento della manifestazione sensibile dell’ideale poetico, è un obiettivo ottenuto mediante l’accostamento di labili nessi posti tra le immagini di volta in volta scelte per evocare un senso aggiunto alle parole versificate. Questi nessi creano un ponte metasemantico tra le parole e le cose designate con esse, in direzione del superamento di qualsiasi univocità di pensiero e di qualsivoglia riferimento immediato. […] La tripartizione eponima delle voci, nell’intervallarsi della dimensione prosastica del qui-ed-ora, scandisce una sequenza immaginifica di proposizioni alogiche universali ed esistenziali in cui si ritrova la natura originaria dell’indagine archetipica circa il nesso tra i sensi e i significati che è da sempre il principale campo di indagine della poesia di Martina Campi. Ma se lo spazio è visualizzato nella topografia direttamente ostensiva del dicibile, al contrario, il Tempo, nella dimensione sincretica del cronotopo, è un Tempo Santo da sollevare dialetticamente, da tollere o aufheben quasi in senso hegeliano, o meglio da fondere nel fuoco inestinguibile della passione bruciante del poeticum, laddove “le ferite sono le finestre/ dogma in metri quadri/ come magma sul parquet” […] (dalla postfazione di Sonia Caporossi)