Premio Bologna in Lettere 2019 – Gabriella Montanari- Nota critica di Giuseppe Martella

Le note critiche agli autori che hanno ricevuto il Premio speciale del Presidente delle giurie alla V edizione del Premio Bologna in Lettere: Gabriella Montanari

 

 

Tra gesto e fotogramma

Nel concerto di voci che fa da prefazione a Anatomie Comperate (WhiteFly Press/Vague Edizioni, 2018), ce n’è una che raccomanda al lettore di spalmarsi questa poesia su “pelle, ferite, cicatrici, abrasioni”, cioè sul proprio corpo, rispondendo così mimeticamente all’operazione di smembramento e offerta rituale che l’autrice fa del suo, sì da poterne ricavare appieno tutti i benefici estetici e terapeutici del caso. Si tratta in effetti di una esortazione alla ricezione tattile, epidermica, dell’opera, analoga a quella che Walter Beniamin aveva a suo tempo teorizzato a proposito dello spettatore cinematografico che (investito dalla sovrabbondanza sinestesica che l’allora rivoluzionario medium, nonché le frenetiche metropoli del primo Novecento, gli riversavano addosso) aveva a suo parere inconsciamente elaborato: quella sorta di “attenzione nella distrazione” che gli serviva come tattica di orientamento e di sopravvivenza in ambienti iperstimolanti. Ora qui, nel testo di Montanari, la tempesta di stimoli certo non manca e tanto meno il flusso cinematografico di quadri, primi piani e campi lunghi, sequenze alternate e dissolvenze, flashback e ellissi narrative, e così via. A produrre quella che si potrebbe chiamare una poetica del fotogramma, proprio per indicare l’interazione costitutiva che qui sussiste tra scrittura e fotografia, caratterizzando materialmente questa raccolta e le due precedenti, ma poi, a mio parere, in modo implicito anche quelle altre opere in cui le fotografie sono assenti ma dove il rapporto fra testo e immagini rimane di natura cinematica, rinviando di volta in volta a una sorta di gesticolazione immanente all’atto della scrittura. Eppure, in modo sorprendente, né qui né altrove a quanto mi costa è stata messa nella dovuta evidenza la natura intermediale, oltre che cinestesica, della poesia di Montanari.Quanto al suggerimento da cui siamo partiti, ovviamente, trattandosi di un libro, ce lo possiamo spalmare addosso solo per figura, cioè proprio facendo attenzione alla sua configurazione di insieme e di dettaglio. A partire da ciò che vi sta ai margini, né dentro né fuori dell’opera, costituendone la cornice (o parergon). Si tratta appunto in generale delle prefazioni, avvertenze, note, eserghi, dediche, illustrazioni, eccetera. Ora, se osserviamo attentamente la cornice del nostro testo, scopriamo degli indizi interessanti riguardo a quella che ho chiamato “poetica del fotogramma”. A partire da una confidenza che l’autrice ci fa in quarta di copertina (e su cui potremo poi eventualmente interrogarla): “fotografo quando sono stanca delle parole mie e altrui.” E poi anche da quella fotografia finale di un manoscritto poetico dell’autrice, intitolato “a star fuori” ed esibito appunto come hors texte o paratesto, a indicare proprio il rapporto intimo tra fotografia e scrittura, oltre a evidenziare nei contenuti quella combinazione di denuncia sociale e di umorismo che caratterizza la poesia di Montanari in generale. E naturalmente poi ci sono tutte quelle foto che aprono ciascuna delle 7 sezioni del testo, riassumendone icasticamente i contenuti.

Mi pare dunque che si possa dire che il punctum dell’invenzione e il presupposto del debordante discorso poetico di Montanari sia lo scatto, cioè il momento in cui la fantasmagoria mnestica della poeta viene messa a fuoco (anche solo idealmente) su una scena, fissata in immagine, per poi essere tradotta e trasfigurata in forma di parole. Cioè in quel flusso verbale fecondo e debordante, che dovrà però a un certo punto pur arrestarsi, sulla diga di qualche immagine saliente o comunque di qualche tipo di clausola, come quei distici epigrammatici che spesso a fine di ciascuna lirica troncano di netto i voli surreali, riportandoci di botto coi piedi sulla terra.

Ma ovviamente qui, in Anatomie comperate, la dialettica di visione e parola, si incarna anzitutto materialmente in quella tra foto e testi, e la cornice dell’opera è costituita anzitutto dalle fotografie che vi sono incastonate, a partire dalle due che stanno all’inizio e alla fine del testo. Che si apre con una immagine di lei bambina, una foto che ha qualcosa di antico e di perturbante, richiamando gli albori della fotografia, quelle foto ottocentesche di Nadar o Atget, per esempio, che rappresentavano i loro soggetti come “luoghi di un delitto”. (Benjamin) O meglio di una perdita, di una mancanza – ontologica o esistenziale. Per Walter Benjamin si tratta anzitutto della perdita dell’aura dell’oggetto riprodotto, cioè della sua unicità e virtù di testimonianza; per Yves Bonnefoy, della perdita della “presenza” del vissuto di cui si tratta, nella riproduzione replicabile e dettagliata della sua immagine. Per entrambi, questa negatività della fotografia (cioè il suo rinviare alla nullità dell’esserci nell’infinita riproducibilità tecnica dell’immagine) può essere poeticamente rovesciata in due modi: o attraverso la ricomposizione dell’orizzonte concreto del vissuto fissato nell’immagine, la meditazione quasi mistica volta al recupero della presenza o “liberazione del visibile” dalle astrazioni del concetto e dalle incrostazioni dell’abitudine (così Bonnefoy); oppure attraverso una sorta di istantanea, deliberata sovraesposizione dell’oggetto tecnicamente riprodotto, quasi una messa a fuoco sacrificale del suo corpo, lo smembramento dei suoi organi e lo sgranarsi dei suoi tessuti, nell’ingrandimento enfatico del dettaglio, per restituirlo infine alla sua originaria sacralità e integrità, cioè all’ambito della cura e del culto. (Benjamin) Si tratta in questo caso dell’ostensione spasmodica e parodica dei simulacri della merce (o della parola usurata), per restituirli a una possibile dimensione del senso e del valore dell’esperienza condivisa. Questo è in fondo ciò che tutta l’arte del Novecento, dai dada ai surrealisti, da Duchamps a Wharol, ha tentato di fare, ciascun artista alla sua maniera, con notevole ingegno e una discreta dose di mala fede. Ed è quello che Montanari fa, in modo egregio e originale, in tutte le sue opere. E ora qui, esplicitamente, a partire dal calembour del titolo e dall’immagine d’esordio, in Anatomie comperate, per andare a pescare, nella memoria organica, fossili di vissuto e riportarli alla vita che pretendono, perché, come leggiamo in esergo (da Cioran), “Noi dimentichiamo il corpo, ma il corpo non dimentica noi. Maledetta memoria degli organi!”.

In effetti l’immagine iniziale della bambina, (al cui sguardo magnetico, nel datato bianco e nero analogico di qualche decennio fa, non riusciamo a sottrarci quasi come accade con la Gioconda di Leonardo,) e il close up finale del volto sovraesposto della poeta adulta, costituiscono parte integrale della cornice dell’opera, su cui si deve misurare il rilievo del testo verbale, la sua tensione ritmico-figurativa verso il recupero del senso d’esserci, tramite l’esplorazione dei sensi e la memoria degli organi. Sì da potere occasionalmente strappare “ciuffi di memoria” a un ippocampo cerebrale “sempreverde”, con una oscillazione metodica tra l’invenzione surreale e la realissima resa delle immagini evocate: “Allergica ai nettari emotivi/lascio spasimanti maturi impiccati ai rami” (p. 18), ma poi “I nervi delle strade di Romagna/s’infiammano per un nonnulla, le indoli carburano a spergiuri.” (p. 19) Con analogie mozzafiato e una sorprendente ginnastica del punto di vista, fra discese e risalite, alto e basso, astratto e concreto, come per esempio in Aviaria, (“Mai provato il punto di vista del rapace?/I testicoli rasoterra, le gote gonfie di nubi”, p. 84) dove nella complementarità delle prospettive del cacciatore e della preda, si può cogliere una cifra saliente  della sua poetica. Fino all’ultima fotografia, di cui abbiamo detto, di un proprio manoscritto, intitolato “Tutti giù per terra”, che chiude la silloge su una nota di denuncia sociale, dove convergono la rabbia e la compassione, l’ironia e l’autocritica, caratteristiche della poesia di Montanari, che si fa ora coscienza collettiva del nostro disumano disincanto: “Anche oggi non sono io a saltare/qualcuno pagherà, con moderazione/qualcun altro non rincaserà/non guarderà il figlio dormire/non soffocherà l’orgasmo per non fare rumore” (p. 105).

Da una parte vi è lo sguardo, dunque, ancorché spurio, tecnologicamente rimediato, ad aprirci il mondo. Dall’altra il gesto, che è quanto di più prossimo al corpo proprio, alle sue anatomie e fisiologie comparate e svendute al dettaglio. Il grottesco, osceno, gesticolante corpo-teatro del mondo, dove l’occhio e le mani cooperano in una serie di scatti che articolano lo spazio comune a ciò che si vede e a ciò che se ne può dire. Questa polarità intrinseca fra occhio e mano, sottesa all’intera raccolta, viene messa a tema in particolare nella fotografia introduttiva alla terza sezione: tre mani di donna sovrapposte, come in una reciproca carezza, a comporre una catena della cura e della generazione (così del vivente come del poema) che va al di là del destino individuale per investire quello della comunità e addirittura della specie umana, cioè la dimensione filogenetica che lascia tracce nell’inconscio organico, in quei luoghi che ciascuno “ha nel sangue e nessuno lo sa.” (come dalla citazione in esergo da Pavese, p. 47).

Tutto ciò appare con particolare evidenza in quest’ultima raccolta, dove organi e funzioni vengono tematicamente in primo piano e dove, come si è accennato, si mette a fuoco (verbalmente e fotograficamente) l’immagine delle mani, non a caso premessa alla sezione che ha per tema la maternità, la nascita, la cura dei figli; i complessi legami familiari, le carezze, offerte o mancate, l’amore e i sensi di colpa, declinati anche in prospettiva macrocosmica, come nella lirica La specie: “vi guardo/dal balcone degli anni di luce/diventare stelle avide di cosmo,/pianeti non più attratti da me./Vi offro un palmo, l’unica premura che so.” (p. 48) Oppure, nella descrizione dei travagli del parto, quando si ascoltano voci che vengono da molto lontano, intimazioni ataviche che eccedono la memoria e la volontà individuale: “dall’utero dilatato/uscivano voci antiche/che consigliavano la resa,” (p. 49) E poi ancora si può leggere di “universi antichi trasmessi nel latte” (p. 53), oppure che “I bambini appartengono/a tutte le placente e a nessuna.” (p. 54) O che “Il DNA è un doppio laccio/che si fa cappio/dopo una sequenza di orgasmi.” (p. 54) Finché dall’altra parte (quella del futuro) appaiono le mani dei figli che apprendono il mondo sventrando giocattoli: “Tu che sventri orsetti/per ritrovare il filo, il buco caldo.” (p. 51) O intessono collane per costruirsi una dimora dell’anima: “Facevi collane con cilindri di minestra/chiedevi zuppa, volevi casa.” (p. 52) E’ ad essi infine che l’io poetico offre la cura delle proprie mani, donando ciò che può e chiedendo perdono per le proprie fisiologiche mancanze: “perdona questa mamma senza una mamma.” (p. 52) “Annie amava i lecca lecca e l’anice./Io amavo voi ma non sapevo leccarvi.” (p. 53) (Giuseppe Martella)