Premio Bologna in Lettere 2020
Sezione C (poesie singole inedite)
Giorgiomaria Cornelio, Senza titolo – Primo classificato
Tra il chiarore e l’ustione,
la multi-forma del vivente nella poesia di Giorgiomaria Cornelio
Non esistono soltanto le crepe manifeste negli abissi del caos a dominare l’immaginario poetico e interiore di ogni artista della parola, bensì il loro radicarsi nelle forze ctonie, genetiche, del caos stesso che crea la poesia. Una tremenda potenza abita infatti in quella combinazione fonica che non è ancora poesia – per la semplice ragione che viene prima di essa – e che si manifesta come filtraggio dell’essenza del vivente, alla maniera di certe gocce stalattitiche che generano colate informi e disvelano una forma organica per astrazione del loro moto millenario, trasmutando entro una materia petrosa, come la superficie scabra dell’essere a cui “poi, vien data sembianza/ di rammendo”. È una poesia intensa, che non ha titoli, questa di Giorgiomaria Cornelio, generata in una sorta di evento immobile, quasi preontologico, che nel suo farsi documenta l’incessante riproporsi e mutare della polarità caso-caos, nella sua funzione creativa, metapoetica.
Il divenire opposto alla stasi dell’essere (la “doppia rigatura” del cielo), l’elogio della contraddizione e della fertile dialettica tra memoria e oblio, l’indagine semantica di silenzio e parola alle radici di un caos incompiuto: ebbene tutti questi elementi divengono una forza espressiva talmente potente da sbriciolare il luogo/non luogo dell’immaginario materico, plasmando il calco emozionale della forma che si imprime, come traccia instabile, in quel “glossario degli occorrimenti” il cui procedere sinuoso “Non di meno, s’annoda nel cero”, radunandosi in gesti oscuri, dimenticati, che attendono “il buio innesto della luce:/la miccia”. Nel gioco illimitato del pensiero, tralci di una vitalità profonda si incrociano e si accavallano, come senza tempo, separando e unendo, perché quanto è stato separato conservi comunque i filamenti della materia originaria. In questa prospettiva post-caotica, in cui il buio innesto della luce si rende bagliore, divenendo “cartilagine oltremondana,/ pensamento sovrastante l’argilla”, la materia costitutiva del vivente rivela che è stata toccata nel profondo, mostrando l’usura infinita e il lento colare di molecole, l’una sull’altra. Un uomo vivo e il suo dramma, il risalire lento dal significato, accettando i mostri da riconoscere e da combattere, in uno stato oscuro di necessità in cui l’intervento umano è segretamente “il graffito di chi sta fra cose mozze”, quanto più in disarmonia, apertamente, con la fluidità dell’esistenza e la sua inesorabilità.
La presenza dissolta di un’idea di futuro provoca frantumazione, tracce senza resti, perché “[…] la vecchiezza è un arcolaio/dove sgomitola l’orientamento/delle ere,/l’accordo adunco per stanare/la triplice/crosta del mondo:/numero, peso, misura”: dati di sfaldamento delle forme viventi, età e vecchiezza che vengono a coagularsi in evento simile al colpo di dadi mallarmeano, un evento immoto che “noi, abbarrati nel romitorio/ dei versi, diciamo realtà”. L’immagine che nasce dall’inclinarsi del piano del reale è la resa, avvolta nel chiarore di un’ermeneusi scossa da ricchezza e complessità: il poeta non permette di rimanere in un solo solco esemplificativo, per cui ogni sforzo per tentare di seguire percorsi paralleli risulta artificioso; ma qui, è ovvio, appare il solo praticabile.
Nei testi di Cornelio, il tentativo di logorare il tracciato enigmatico della diade formale che lo genera, “sul crinale / tra il chiarore e l’ustione” ( cfr. Giorgiomaria Cornelio, La promessa focaia (2017-2019), Anterem Edizioni, 2019) è dunque perfettamente portato a compimento: è questo il momento genetico, drammatizzato, da cui scaturisce l’atto poetico. L’autore lo strappa infatti all’oscurità ma in segreto lo deforma, riuscendo così a sottrarlo all’inosservato dell’anonimato umano e, finalmente, consegnarlo a quel senso di appartenenza alla comunità invisibile di blanchottiana memoria che dissolve le strutture, disfa le forme e nel contempo sedimenta senza posa. È questo uno degli aspetti in cui al Nulla ereditato dal simbolismo, e vivificato come polo dialettico, viene preferito piuttosto il silenzio a cui si oppone la parola. Un’assordante assenza ermetica di suono che proprio nel silenzio matura quel concetto di caos originario che è il mondo privo di linguaggio, in cui nasce la sua coscienza semantica, configurata come segno d’opposizione che acquista intenzionalità tragica e agisce nella zona presegnica, nell’area cioè in cui la volontà del poeticum si rende “smalto sull’ortaglia illividita”. Il corrispettivo della “Saison en enfer” rimbaudiana o, ancora più precisamente, il momento compositivo contiguo a quello formale? Il caos tragico che ne deriva si districa verso quello che Spitzer chiamerebbe il momento della “enumerazione caotica” ma che in questi versi si configura piuttosto come quello di uno spazio genetico, attraversato da fulminea Bellezza, che percorre un ermetismo-informale, straniato, comparabile soltanto all’interrogarsi del linguaggio su quello che la tradizione creativa, anche recente, chiama il momento tracciante delle forme inventive. Il linguaggio poetico, come atto poetante in fieri, tesse infatti in questi tre componimenti un fitto reticolo di relazioni, orientate dalla concezione dinamica dell’operazione linguistica che, reificando quella dimensione poetica che il postmoderno definisce “scienza nutrita di stupori”, si rivela quasi, all’ombra del suo perfezionarsi riflessivo e perturbante, quello spazio bianco che Nietzsche chiama “il deserto che si accresce”. Quest’aspetto è tra quelli che richiama l’importanza dell’accettazione di ferite doppie, perdute dentro una falsa luce notturna e, ogni volta ripete il suo rituale sciamanico “-come la calvizie dei rami-, nel/legno ritempri non sai quale vecchiezza, tu vivi.” Riaperte dunque le piaghe con “il mantice della natività”, non resta che affidarsi alla potenza di enigma della poesia, per dare voce alle poche parole sopravvissute dentro il vuoto e la nudità di quell’ “utero sghembo nel quale andavi a ficcarti”. Tra metafore dolenti e densità formali impazzite, si consuma quindi la necessità del vivente di rivendicare una dignità luminosa, che protegga dallo spaventoso abisso spalancato dalla nascita, e restituisca alla morte una sorta di purezza, con la quale il poeta prefiguri i mostri oscuri da combattere.
Per raggiungere il punto controllato dell’esplosione vitale, la desolazione misterica di questi versi si esplicita in un rovello premeditato: “Soccorso -avresti- il pallore, l’infermità/ dei pigmenti?” e preserva, in un’affascinante prossimità simbolica, la profondità di tutte quelle intermittenze del cuore che non ne arrestano il pulsare ma ne accrescono la potenza formatrice. Così, l’ignoto di questa interrogazione percorre la successione proliferante, e apparentemente immobile, della poesia, imbastendo fughe che sono in realtà ritorni, e saturandone l’implicita energia. Un pensiero instabile e combattuto in questi versi splendidi, certo, ma che aprirà una via in mezzo al vuoto silenzioso del suo tempo. (Antonella Pierangeli)