Premio Bologna in Lettere 2020
Le note critiche agli autori segnalati della Sezione A (Opere edite)
Giovanni Laera, Fiore che ssembe (Pietre Vive Edizioni)
Non un mero tentativo di nobilitare la lingua dialettale come ormai d’uso e d’abuso nel vasto (ancorché sotterraneo) panorama della letteratura regionalistica in vernacolo, e nemmeno un esperimento di resa stilistica che permettesse al dialetto di rendersi autonomo rispetto all’italiano letterario del poetese medio: infatti, se pure in questo libro lo si può certo considerare anche tale, purtuttavia il dialetto di Giovanni Laera nel suo Fiore che ssembe risulta certamente coestensivo e coagulato rispetto all’italiano letterario stesso, senza screzi né slabbrature formali o contenutistiche di sorta, e soprattutto senza soluzione di continuità nel passaggio da un codice linguistico all’altro. Giovanni Laera porta a compimento questa delicata alchimia del verbo in maniera leggera e impercettibile, semplicemente dando pari dignità e soprattutto valore suggestivo ad ambedue i codici e ai vari registri utilizzati, raggiungendo l’obiettivo centrale del poetico in quanto poetico.
Il dialetto non è in questa silloge permeato dal funzionalismo artificiosamente povero, stucchevolmente ammiccante a cui troppo spesso potremmo imputare il fallimento di tanti libri di poesia dialettale; è anzi un filtro che dona una patina contemporaneamente antichizzante e rinfrescante, nobilitante e normalizzante, filtro il quale, anziché colorare di straniamento la lingua poetica, la permuta e la modifica in ratio e lectio, la raggruma in una superiore sintesi di chiarissima incomprensibilità che non ha lo scopo di ingarbugliare il senso del testo in quanto ostensivamente concepito, giacché questa stessa sintesi risulta composta dalla natura sostanziale della poesia, come fosse un prolungamento del testo in vernacolo capovolto come un guanto nel suo corrispondente in lingua e viceversa, senza che si manifesti una singola sbavatura lungo il crinale perfettamente conforme della traslazione da un codice informativo all’altro.
Ciò che dona ai testi della raccolta la freschezza antichizzante e antichizzata di cui si parlava prima è proprio questo equilibrio delicato tra il livello metastraniante del messaggio e l’armonia tra la musicalità e la consistenza fonematica del dettato, che apre squarci affacciati sull’abisso della complessità contenutistica di una poesia, quella di Laera, ricolma di enigmi e abbocchi di senso taciuti, lasciati all’ermeneusi libera del lettore, tanto che Francesco Granatiero, nella penetrante postfazione al libro, arriva a parlare di un vero e proprio trobar clus. Il dialetto pugliese della città di Noci è la lingua materna del sostrato familiare che l’autore indaga e approfondisce nei propri studi fino a scardinarne i segreti sonori e fàtici più riposti. Ma non si faccia l’errore di inquadrare centralmente il dialetto come forma primigenia della raccolta (in senso sia cronologico che logico), di cui la versione italiana dei testi non sarebbe che una semplice traduzione; infatti, se così fosse, i testi in italiano non sarebbero puntualmente anteposti a quelli in vernacolo, bensì posposti. Piuttosto, quest’ordine lascia intendere al lettore che siano stati questi ultimi a esser stati tradotti da un sostrato precedente eternizzato e cristallizzato in una sorta di langue saussurianamente concepita come istanza linguistica socialmente convenzionale e normoriflessa, e non il contrario. Si arriva anzi a ritenere, andando avanti con la lettura, che sia proprio a causa delle esigenze pulsionali e irripetibilmente soggettive e private della parole che l’ordine classico del passaggio di codice dall’italiano al vernacolo sembra sovvertito nel suo contrario: esso, in realtà, ha compiutamente trovato un ordine logico-comunicativo nel trapasso consunstanziale tra la lingua madre e una sorta di lingua padre, per così dire, adulta e matura, che non opprime più il parlante nello strazio socioantropologico e psicanalitico dell’abbandono e della nostalgia. La tragedia della perdita delle radici antropologiche e archetipiche come topos della letteratura dialettale viene infatti decostruita e tolta non tanto grazie all’uso del dialetto come recupero di queste stesse radici, soluzione che qui sarebbe troppo facile, bensì proprio nel superamento della scissione, rigenerato nella coestensività dei due codici, nessuno dei quali surclassa o deforma l’altro. Allora l’universo poetico di Laera, fatto di evocazioni e fantasmi di una natura paesaggistica e personale connaturata all’eternità sospesa di un tempo interiore, vive di questa concrezione, di questa fusione indicibile, nella fascinazione assoluta della parola traslata, nel mistero irrisolto di un dire comunicativo che si riconosce come tale proprio perché indecifrabile (Sonia Caporossi)