Premio Bologna in Lettere 2020
Le note critiche agli autori segnalati della Sezione C (Poesie singole inedite)
Adriana Tasin, Sirena
Ha il titolo di una iconica figura del mito la silloge presentata dalla poeta trentina Adriana Tasin, Sirena. E in questa sola parola si condensano quasi tutti i temi cari all’autrice: la costruzione della donna, il suo rapporto con la parola, l’inospitalità del mondo sociale, il peso della maternità. Costruzione della donna, in quanto disponibilità alla trasformazione, all’ibridazione, un lavoro sul corpo, una concessione alla propria natura desiderante che si manifesta come tensione all’altro, come attenzione, come focalizzazione del visus («lì il mio sguardo s’infiltra / e m’avvicina, / come sirena»), ma anche come processo di “s-finimento” del sé nel senso di confronto dissipante e sacrificale con la dimensione di ciò che è profondo e senza-fine (il mare che «va giù. Senza misura»). Il canto della sirena, inoltre, allude anche al rapporto d’alterità della donna rispetto al linguaggio dell’uomo: se il discorso del padre si è sostanziato come logos, inventario della precisione, principio d’identità che «a ogni cosa» mette «un nome solo» («e dicono / casa alla casa / mare al mare / vento al vento»), e tale discorso è stato nel corso della storia interdetto alla donna, dichiarato “non suo”, allora «le parole cadono sul foglio», allora resta un sillabare interrotto, onirico, dove il non-sapere è meraviglia, uno thaumázein che produce miracoli («dicono di me / che spesso non so / e me ne sorprendo»). In questi testi è dolorosa e bruciante la consapevolezza della discrasia con un mondo “di terra” che non si può abitare: «Non credo tornerò su. / Non ci sarà modo / di tornare a galla.» O almeno, se anche la convivenza si deve accettare, sarà sempre incompleta, obliqua, sfasata, e gli esseri che non appartengono al mondo indifferenziato e avvolgente dell’acqua, quelli che si limitano a passeggiare «sul ponte / da prua a poppa», riveleranno la loro natura di «creature evanescenti» che non possono abbracciare, perché come strumenti relazionali molli e inefficaci hanno soltanto «mani di cenere». Anche la possibilità di cercare «nella culla» quella luce d’identità che alla donna è sempre stata affidata è di là di una tenda, un incespicare nel vuoto, la ricostruzione di un’unità immaginaria e riparatrice con un «figlio // che non è più mio». Perché la risposta alla domanda “cosa sono?” la Tasin la dà nella sua recente raccolta, uscita quest’anno per Puntacapo: «femmina, donna / infine madre / ultimo scalino non compiuto». (Maria Luisa Vezzali)