Premio Bologna in Lettere 2020
Le note critiche agli autori segnalati della Sezione B (Raccolte inedite)
Simone Biundo, Le care bestie
La prima sensazione che ho avuto, dopo aver letto Le care bestie di Simone Biundo è stata quella di aver sfogliato un atlante geografico: proprio uno di quegli atlanti con le pagine in carta lucida e piene di colori, quelli con la copertina rigida, che si usavano una volta a scuola.
L’analogia mi è venuta non certo da un sentore di nostalgia, ma perché mi è parso di ripercorrere, attraverso le poesie di Biundo, una serie di immagini di viaggio: una scrittura che, se non ci fosse il rischio di scadere nello scontato e nel convenzionale, potremmo anche definire geografia dell’anima.
Sono infatti presenti, nelle poesie che compongono questa raccolta, molti luoghi: per esempio le Alpi Graie, la Valtournanche, l’autostrada A50, le strade di Genova, oppure le diverse località che sono descritte nella parte intitolata Migrazioni e poi boschi, montagne, monasteri, giardini, piazze.
Il viaggio poetico di Biundo è al tempo stesso viaggio individuale e percorso condiviso. I versi che introducono la raccolta, del resto, recitano: C’è sempre / una folla / anche quando / sei solo / e rimani / a guardare.
Che cosa resta di tutte le lunghezze e le larghezze percorse? Rimane una tempesta / che non arriva,: è il poeta che ce lo dice, in uno dei testi iniziali, quasi ammonendoci su quanto non è ancora accaduto, ma potrebbe accadere.
La raccolta è suddivisa in sedici capitoli (mi piace definirli così, anziché sezioni), numerati progressivamente e intitolati: Ascensione, Preferisco sentire se mi parli dalle nuvole, Il richiamo, Nel piccolo giardino, Andata e ritorno di un giorno di lavoro, Migrazioni, Dal nido, Sconfinamenti, Le care bestie, Nuova risalita, Inserto, Altri monasteri, Nel bosco, Veniamo da vicino, Da ieri, Al di sotto del cielo.
Lungo il suo attraversamento Biundo descrive immagini di una realtà desolata: la cava davanti e il rumore della betoniera, oppure ai due cani randagi con le cucce in strada, o ancora Le pianure interrotte dalle pareti delle case, / dai capannoni fatiscenti, dai muretti. È una realtà in cui gli esseri umani lottano quotidianamente per vivere e per sopravvivere: Era un brav’uomo. / Per mille euro al mese / tutti i giorni a lavorare / sotto la pioggia e il sole o ancora le badanti gridano / quando le nonne muoiono, ma non c’è solo questo nei suoi versi.
In altre occasioni, infatti, si sofferma nell’osservazione della natura, come in Migrazioni, in cui a ogni testo corrisponde la descrizione di una pianta (si prendano a esempio i versi la rosa canina / è a guardia del sagrato) oppure di un insetto visto da molto vicino (Leggera è la farfalla / che abbiamo adottato, / aveva il torace azzurro / e le antenne striate).
Gli animali e gli esseri umani convivono in apparente armonia nei versi di Biundo e poi, ecco che ci sono Le care bestie, che danno il titolo all’intera raccolta (Le care bestie che tutto distruggono / hanno le mani piccole, le dita a punta, le unghie rotte, / umane.): sono bambini o forse similbambini o forse altro ancora (Non so se sono bambini / o sono più grandi, / non so se sono animali / o sono le piante).
È un capitolo che combina sapientemente, sia nel contenuto che nell’uso del linguaggio, realtà e visioni oniriche, vita e morte, in un insieme complesso e dalle tinte mutevoli.
La scrittura di Biundo è fatta a volte di versi asciutti, con una poesia quasi prosastica, altre volte troviamo invece una manifesta ricerca della musicalità del verso, risolta con vivacità e personalità.
Tanti gli autori citati, con brani indicati in esergo e dichiarati in appendice alla raccolta, tra cui: Cristina Campo, Kurt Vonnegut, Mary Shelley, Primo Levi, Dino Buzzati.
Le immagini di Biundo sono facce dello stesso mondo o sono mondi diversi? Può forse aiutarci a sciogliere il dubbio il brano di Cristina Campo che precede Ascensione e che recita: Che altro esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?, e se alla fine non c’è risposta, se il dubbio rimane, non c’è di che dolersene, anzi. Come scrisse Bertolt Brecht: Sia lode al dubbio! E sia lode, mi permetto di aggiungere modestamente, alla poesia che crea dubbi nel lettore (Enea Roversi)