Premio Bologna in Lettere 2021 – Daniele Poletti su Alberto Zacchi

Bologna in Lettere 2021

Il Festival online

 

 

Premio Bologna in Lettere 2021

Sezione B (Raccolte inedite)

 

 

Alberto Zacchi

Tremùr

 

 

 

Nota critica di Daniele Poletti

 

 

 

 

È, se non vado errato, la prima edizione di BIL in cui esce vincitrice dalla sezione inediti un’opera in dialetto. Al di là del valore della poesia dialettale in sé – basti ricordare il lavoro straordinario di Buttitta, Marin, Scataglini, Tessa, per fare solo qualche nome – che però in concorsi misti può pagare lo scotto di una minore attenzione, il fatto si presta a un’osservazione, seppure impressionistica, su come in Italia si produca molta “poesia” (o meglio, molte poesie), ma di scarsa o pessima qualità. Vuoi perché intorno alla parola “poesia” aleggia ancora un mistero fitto, vuoi perché ancora ci se ne appropria come di una cloaca per i propri bisogni (in questo caso emotivi), vuoi infine perché quando la prosodia non è il metro del verso spesso si incorre in una stantìa manipolazione “innovativa” della parola (ma questo succede sempre meno spesso; e peccato! perché, nonostante certi risultati, lo sperimentare è il modo più fruttuoso per non sedersi sulla poesia). Assunto che quanto appena detto esprime un punto di vista del tutto personale, perciò discutibile in qualsiasi altra sede, è un fatto che il premiato, Alberto Zacchi, scrive in dialetto bresciano: si è sentita perciò la necessità di promuovere in questo concorso una lingua non dell’uso e non propriamente letteraria, un codice specifico, per molti mal decifrabile, che con la forza sonora e fonetica che le è connaturale, è riuscita a tratteggiare, meglio che in altro modo, la cronaca di una malattia. Non so se Zacchi scriva anche poesie in italiano, ma mi permetto di arguire che per Tremùr (dove segnatamente si affronta il grave problema dell’alzheimer) la scelta del dialetto è strettamente correlata all’intimo dolore che la malattia produce nel soggetto poetico. Un regressus alla lingua natale e dell’infanzia quindi, funzionante come probabile espediente di conforto e contemporaneamente come ricerca della solitudine. (Una separazione che metaforicamente transita dalla solitudine della malattia alla comprensione della lingua, didascalia di un’esperienza difficilmente comunicabile).
La traduzione in italiano, riportata per ogni testo, testimonia come un lavoro di questo genere avrebbe potuto tranquillamente passare inosservato, senza la sorgente di una lingua altra, che trasferisce una materia così privata e retorica in un dettato sonoro di potente impatto emotivo, scongiurando il pericolo della tragica cronaca del dolore. Naturalmente l’aspetto del suono non è l’unico elemento che contribuisce a smorzare l’intimismo del tema. Il dialetto di per sé dice sempre di più della misura delle parole, siano un esempio per tutti questi versi:

 

Nüd

 

Nüd compagn de ‘n setol,

co le argogne al sul,

me sconde

nel sarà j öcc,

nel’impressiù che nüssü ‘edes

en chel tep desquarciat.

 

Nudo

 

Nudo come un verme,

con i genitali al sole,

mi nascondo

nel chiudere gli occhi,

nell’impressione che nessuno veda

in quel tempo scoperto.

 

«Compagn» è avverbio per “come”, ma non è secondario che funzioni da aggettivo, “compagno”, quindi «Nudo come un verme», ma anche, nelle pieghe del significato, “nudo compagno di un verme”. Similitudine in aria di metafora questa che, non solo anticipa i componimenti finali della raccolta (da Pregà in poi) in cui c’è un’apertura religiosa assai scoperta, ma semanticamente si lega subito ad «argogne» (vergogne), termine reso in italiano con “genitali”, che risuona di una gergalità infantile e va a rafforzare la drammaticità del processo di trasformazione del corpo.
A cascata il campo semantico si propaga attraverso «me sconde»/”mi nascondo”, «sarà»/”chiudere”, « nüssü »/”nessuno”, per arrivare a quel «desquarciat »/ “scoperto/aperto”, che in antitesi con le “chiusure” che precedono, non può non suggerire uno “squarcio”, la causa dell’effetto che è l’apertura e lo spostamento dal referente dichiarato, il “tempo”, al soggetto poetico.
Non a caso ho parlato di “soggetto” e non di “io” poetico, in quanto Zacchi, mi pare, fa agire nei suoi testi il soggetto in un’operazione consapevole di rappresentazione, evitando il bisogno (!) egoriferito dell’io lirico. Ne è una chiara spia l’utilizzo, anche straniante, del genere maschile e femminile alternato nei componimenti. Ultimo, evidente, ma non meno importante elemento, è il tratteggio narrativo del carattere di un personaggio, che avviene per via indiretta, attraverso l’utilizzo diffuso di una autoironia, certo inquieta, che produce un sorriso amaro, ma impedisce al racconto di scadere nel lamento privato.  Questo aspetto si perde quasi del tutto in chiusura di raccolta, dove lo squarcio è un’apertura verso la fede, evidentemente necessaria al poeta per sostenere il significato della malattia. L’andamento diviene più salmodiante, la materia subisce, a mio avviso, una normalizzazione, tuttavia permane in questi versi la linea tematica del “tremare”, che arriva a rappresentare nell’immobilità del corpo che scompare («nel sta ferem del me tremà»/” nell’immobilità del mio tremare”) un’ulteriore possibilità di spostamento.