Bologna in Lettere 2021
Il Festival online
Premio Bologna in Lettere 2021
Sezione B (Raccolte inedite)
Vanni Giovanardi
Am piasz acsé
Nota critica di Alessandro Canzian
Un’opera, seppur breve, se contiene alcune immagini che possiamo arrivare a considerare “memorabili”, è un’opera che funziona. Ma cosa rende un testo, un verso, memorabile? È opinione di chi scrive che sia la sua empatia, la sua capacità di entrare in contatto con il lettore. Con quale parte del lettore? La sua parte razionale? Emotiva? Inconscia?
La poesia rifugge la parte la razionale, anche se non può del tutto prescinderne. E non può nemmeno essere solo emotiva, o solo inconscia o ancor peggio inconsapevole. La buona poesia attinge a tutti e tre gli ambiti in diversa misura e stringe la mano al lettore dicendogli: “io sono con te, come te”. O, riprendendo il titolo dell’opera in questione: “anche a me piace così”.
“Am piasz acsé” (“Mi piace cosí”) di Vanni Giovanardi è un’opera tanto breve quanto luminosa. Diciassette componimenti in dialetto emiliano che senza particolari acrobazie stilistiche, ma con una sapiente freschezza che ha fatto dell’asciuttezza e dell’essenzialità il suo punto di forza, che fotografano sentimenti e occasioni solo apparentemente silenziose, piane nel loro svolgersi quieto e senza drammi.
Il tramonto non è un rosso che brucia ma una “ültima vargogna dulsa / dla lusz” (“dolce vergogna / della luce”) che presagisce “l’ültim pascadur dal tramunt / viszibilment inamurà” (“l’ultimo pescatore del tramonto / visibilmente innamorato”). Pescatore che emblematizza il punto di vista privilegiato di Giovanardi: l’amore.
L’autore infatti non solo ha come focus precipuo un sentimento già maturo, solido nel suo sentirsi (che prescinde dall’esistenza di un’altra persona, se ne tenga conto nella lettura), ma lo usa come filtro per osservare il mondo come tempo che scorre, fatti che accadono.
“Stasira a m’admandi quant ciel / ò pers / quant vent sgrafgnà, quanti / amur maszarà. / In s’i ongi negri e spurchi / ad vèta, sul rimors ad stagion fiapi / pochi rèmi / e pochi preghieri c’an savrès gnanc / pö catar föra” (“Stasera mi domando quanto cielo / ho perso / quanto vento graffiato, quanti / amori / macerati. / Sulle unghie nere e sporche / di vita, solo rimorsi di stagioni deboli / poche rime / e poche preghiere che non saprei nemmeno / più ritrovare”). Guardare il mondo, le “stagioni deboli”, in questo modo è forse l’espressione più bella di un amore che si rivolge a un tu non preciso, non definito, perché trova la sua ragion d’essere nella maturità del suo sentire. Del suo vedere.
Come dicevo un’opera, per quanto breve, per essere memorabile deve avere alcuni versi che restano dentro, preferibilmente non come pugni allo stomaco ma segni vivi e vividi. Quest’opera di Giovanardi non ne è priva, capace com’è di punte luminosissime.
“Am pias li doni fati da scorsa luszénta / che surprészi in pé in sli soj / li sa sbasa a regalar suspir in si cavì” (“mi piacciono le donne fatte di corteccia lucente / che sorprese in piedi sulle soglie / si abbassano a regalare sospiri sui capelli”).
“Ma intant a li fnestri / as taca a speciar / culur növ e as sent an / pruföm / c’an fa mia mal” (“ma intanto alle finestre / cominciano a specchiarsi / colori nuovi e si sente un profumo / che non fa male”).
“I tö oc iè pansa, iè pan / iè aqua gnüda szò a stèndar l’erba / iè sdadas a l’alba, quand è fnì la guera. / Iè silensi, la not, al szél dli stèli d’in dö gnom / la mort pö bela e töt al temp / c’agh völ / par farm’inamurà” (“i tuoi occhi sono pancia, sono pane / sono acqua caduta a distendere l’erba / sono svegliarsi all’alba, quando è finita la guerra. / Sono silenzio, la notte, il gelo delle stelle da cui veniamo / la morte più bella e tutto il tempo / che serve / per farmi innamorare”).