Bologna in Lettere 2021
Il Festival online
PREMIO BOLOGNA IN LETTERE
Sezione C (Poesie singole inedite)
Marco Rinaldi
La lumaca
Le tre poesie di Marco Rinaldi dipingono tre scene da una Terra Desolata attraversata con il movimento lentissimo della Lumaca, titolo dell’ultimo componimento scelto per l’intera mini silloge.
Sui panorami via via messi a fuoco gravano il silenzio, un pervasivo senso di precarietà e le tracce di un passato svanito che ci si porta dentro, addosso, come i fossili. Si comincia con un risveglio ben diverso da quello operoso di una giornata lavorativa che a sera troverà ristoro negli affetti: il lavoro è infatti subito negato, i campi sono incolti e le donne sono andate altrove. L’aspetto residuale del paesaggio ha contagiato le persone: le barbe sono elettriche e tristi, come i luoghi, e il loro color ruggine potrebbe essere lo stesso di qualche fabbrica dismessa. Magari una fabbrica di chiodi, che qui richiamano espressamente il titolo del libro di Ágota Kristóf ma fanno pensare anche a quei chiodi che “non si saprà mai quale Cristo andranno a crocifiggere” di Luigi Di Ruscio. I chiodi che accordano la seconda poesia alla precedente perché come i fossili sono portati nelle tasche, come un ricordo del passato o una sorta di amuleto. Anche qui l’assenza di lavoro è semplicemente accennata in un verso ma informa l’intero componimento: si torna a un punto di partenza, non si ha la forza di rispondere a un nuovo invito a ricominciare. Tutto sembra perduto: mancano il grano, il riso, il calore umano (che rimandano ai campi incolti e alle donne partite) e un capello bianco spunta ad annunciare una fase della vita che già declina. Una fase in cui i desideri appaiono lontani ma non ancora spenti, come le torce rotte che ancora danno una tenue luce. L’ultimo scenario è quello di una città indefinita e vuota, arroventata da un sole aggressivo di fine agosto, senza alcun riferimento che la individui ma solo un richiamo a una qualunque piazza. La città e le stanze di una casa parimenti vaga sono invase dall’assenza di qualcuno che se n’è andato, la cui partenza rischia di divenire definitiva con lo sparire anche dal ricordo, qualcuno che ispira metafore animali contraddittorie (il coccodrillo sveglio nel fossato e la lumaca bella) incarnando la natura conflittuale del soffrire l’abbandono. Nell’ultima poesia il senso di labilità che caratterizzava le altre è portato all’estremo con l’idea che ogni vissuto non sia altro che il frutto dell’immaginazione, che la propria realtà non esista. Qualunque cosa fosse è trascorsa, come il leopardiano dì di festa evocato dal sintagma “senza vento”. Un richiamo indiretto, così come quello a Di Ruscio, che si unisce alle esplicite dediche delle prime due poesie: la prima a Breece D’J Pancake, cantore, nella sua raccolta di racconti Trilobiti, di un’America desolata, tra le colline e le piane del West Virginia, abitata da personaggi stretti tra un passato perduto e un futuro evanescente, bloccati nel presente proprio come i fossili; e la seconda ad Ágota Kristóf, da cui il poeta riprende il tema delle cose svanite e lo sguardo acuminato fissato sulla perdita. Oltre al riferimento ai chiodi, titolo della raccolta poetica della scrittrice ungherese, Kristóf è ispiratrice di immagini più graffianti e dure rispetto agli altri due componimenti e di un conflitto con la lingua (la Á di Ágota che si pronuncia diversamente dalla A italiana), lo stesso che lei ha vissuto con il francese. In definitiva, il saldarsi ad altre voci, seppur faticosamente, porta uno slancio positivo nei versi malinconici, apparentemente senza speranza ma così potentemente, visivamente suggestivi di Marco Rinaldi. L’intento di “tradurre e conservare”, il senso della letteratura, in fondo, la sua vocazione di testimonianza. (Francesca Del Moro)
Marco Rinaldi è nato nel 1985 nel Gargano. Autore di tre raccolte di poesie e una di racconti brevi, lavora nella gestione progetti di cooperazione con l’UE. Vive a Roma.