Bologna in Lettere 10th
BĂBÉL stati di alterazione
Azione 7
GENEALOGIE – LE LINGUE MATRíE
a cura di
Anna Maria Curci, Francesca Del Moro
Ombretta Ciurnelli
Première video Mercoledì 27 ottobre ore 22.00
sul canale youtube del Festival
Ombretta Ciurnelli è nata nel 1947 a San Martino in Campo, un piccolo centro del contado perugino, ma da più di mezzo secolo vive a Perugia, dove ha studiato, laureandosi in Lettere Moderne. Già insegnante nei Licei della sua città, è giunta alla scrittura in dialetto nell’età matura; la sua prima raccolta, Badarellasse ncle parole. Abbecedario di acrostici è infatti del 2007. Nella sua poesia dà voce a sentimenti, memorie ed emozioni attraverso i suoni primitivi della lingua-madre, riemersa in tutta la sua arcaicità e per nulla scalfita dalle accademiche dissertazioni di insegnante liceale. Oltre a cogliere le ruvide sonorità del dialetto, ne ricerca con particolare attenzione le potenzialità, al di là del valore denotativo-referenziale di un lessico molto povero, legato alla concretezza del vivere. Ha partecipato con successo a numerosi concorsi e alcune sue poesie sono state pubblicate in antologie. Tra le raccolte in dialetto si ricordano Si curron le formiche (Perugia, Guerra Editore, 2010), La città del vento (Roma, Edizioni Cofine, 2013) e gí e ní (Roma, Eidzioni Cofine, 2020). Accanto alla scrittura poetica si collocano numerose letture critiche, apparse in diverse riviste, e una ricerca attenta e continua sul dialetto come lingua della poesia, come appare nell’antologia Dialetto lingua della poesia (Roma, Edizioni Cofine, 2015) e nel saggio Lingue allo specchio. L’autotraduzione nella poesia dialettale (Perugia, Ali&no editore, 2019).
Anna Maria Curci
Sul progetto GENEALOGIE – LE LINGUE MATRÍE
Già nel 1978, con la raccolta Mutterland. Gedichte, Rose Ausländer proponeva una parola e una terra nuove, in contrapposizione a Vaterland, “patria”, termine gravato da una storia lunghissima di appello alle armi e retorica bellica, regione di prevaricazioni e di violenze. Nella poesia Mutterland (matria, terra materna, madreterra), Rose Ausländer scriveva: «La mia patria/ è morta/ l’hanno sepolta/ nel fuoco// Io vivo/ nella mia madreterra/ la parola» (la traduzione è mia). La «terra materna» della raccolta – e della poesia che dava il titolo alla raccolta – di Rose Ausländer, preannunciava quella che, nei versi di Mario Luzi del 1990 da Frasi e incisi di un canto salutare, sarebbe stata «matria»: «Grazie, matria/ per questi tuoi bruciati/ saliscendi».
La parola come matria, come terra materna, dischiude territori che oltrepassano i confini nazionali; è una parola che non può che essere plurale: proprio da qui si sviluppano queste mie riflessioni sulla centralità della poesia dialettale in ogni discorso che voglia restituire consistenza all’aspirazione, che oso dire insopprimibile, a una parola poetica sonoramente universale.
Aspirazione all’universale che è anche assunzione di responsabilità, atto di impegno, passaggio del testimone, di un testimone che mi sembra pienamente accolto, oggi, dalla poesia nei dialetti d’Italia. Ben lungi dall’essere un mero ornamento folkloristico, liberatasi dallo stampo di un rimpianto fine a sé stesso, tale poesia ingaggia una fruttuosa tenzone con la contemporaneità, della quale pur avverte la disgregazione e, non di rado, la devastazione dilagante, quella subíta così come quella provocata.
Nella «terra devastata» fiorisce dunque la parola terra materna, e fiorisce con sonorità, con melodie linguistiche e con accenti vari, spesso così distanti tra loro per urti dissonanti e pur sempre fecondi.
Il plurilinguismo poetico al quale dà vita la poesia contemporanea nei dialetti d’Italia ha, inoltre, il pregio tipico di ogni manifestazione di plurilinguismo, vale a dire quello di favorire sviluppi (incoraggiati da incontri e intrecci, da conversazioni a più voci), degni di interesse anche nelle lingue nazionali.
Perché è proprio la poesia dialettale contemporanea a muoversi verso la pienezza e a resistere attivamente all’esclusione, alla messa nell’angolo, in breve all’ottuso lavorio del monocorde, monolingue, monotono?
Innanzitutto per lo scatto da cui ogni poesia prende le mosse, vale a dire dall’esigenza di «trovare frasi vere» (Ingeborg Bachmann). Ebbene, questa necessità riconosciuta si spinge nella poesia dialettale fino nelle pieghe più remote, nei varchi più profondi. A questo proposito, nella conversazione con Andrea Camilleri, poi pubblicata con il titolo La lingua batte dove il dente duole (Laterza 2013), Tullio De Mauro riporta un passaggio rivelatore da Libera nos a Malo di Luigi Meneghello: «Nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua».
La poesia dialettale non va soltanto a ricercare, per riportarla alla luce, la parola, il lemma, il vocabolo aderente alla realtà che preme per farsi creazione poetica. Essa è dimora primigenia e non rinnegata; aspira, oltre a ciò, a farsi ponte verso altri territori di parole, altri idiomi, che sono sistemi linguistici e, insieme, organismi vivi e continuamente vivificati da questo processo creativo.
Nel farsi ponte, la «madreterra parola» arricchisce, innova, amplia la rete, favorisce l’apertura di nuovi passaggi e il mutuo concorrere a una forma, nuova, dinamica, innovativa.
L’attenzione allo strumento linguistico, medium e sostanza della poesia, resta sempre vigile, dando vita non di rado a una feconda tensione tra familiarità e straniamento, inattualità e immanenza.
Non è azzardato dunque affermare che il panorama poetico si è arricchito, ampliato, rinvigorito grazie all’incontro con la poesia dialettale. Questo vale non soltanto per le versioni in italiano che gli stessi poeti dialettali creano delle proprie poesie, ma anche per il circolo virtuoso che si è andato sviluppando nel campo delle riflessioni metalinguistiche, quindi su temi, strumenti e cadenze del dire poetico.
Il viaggio di BIL 2021/2022 propone un itinerario tra alcune voci particolarmente significative della poesia contemporanea nei dialetti d’Italia. L’itinerario percorrerà la penisola italiana e le isole principali, Sardegna e Sicilia e si realizzerà nei contributi di autrici e autori, con i loro volti e, soprattutto, con le loro voci.
***
Puisia
Vígole piazze
fontane murette
ncol sole ’l vento
l’acqua la graníschia
la cursa di rimore
che mmattisce
e ’l verso dla ciuetta
a ntruschià ’l bujo…
Puzzo de piscio
offrore de botteghe
pietre acomdate
case scalcinate
fenestre spalangate
portón chiuse
e i clor di pinturícchie
a scrive i mure…
Mujne e donne fatte
freghe e vecchie
padrone e serve
e gente sficennata
di sante i lumme
de j’ucifre ’l ghigno
e strúppie e matte
a bagajà tal monno…
Na città già da lia è puisïa
Poesia
Vicoli piazze
fontane muretti
con il sole il vento
la pioggia la grandine
la corsa dei rumori
che stordisce
e il verso della civetta
a confondere il buio…
Puzzo di piscio
profumi di botteghe
pietre ordinate
case scalcinate
finestre spalancate
portoni chiusi
e i colori dei pinturicchi
a disegnare i muri…
Bambini e donne adulte
giovani e anziani
padroni e servi
e gente sfaccendata
le luci dei santi
il ghigno dei malvagi
e storpi e matti
a gridare al mondo…
Una città già da sé è poesia
**
Rispiro
’N muccí de tegole
tette campanile
de torre de torrette
de camine…
E curre supra
’l vèrde di lichene
’l fiatón del tempo
nton rispír del vento
Respiro
Un fuggire di tegole
tetti campanili
di torri di torrette
di comignoli…
E corre sopra
il verde dei licheni
l’affanno del tempo
in un respiro del vento
**
Scaline
Sajono lente
ji scaline ntol colle
che da millanne
l’ chiàmeno del Sole
birate come fusson
’n organetto stirato
da le man de ’n sonatore
(o figurte sinnò
ventaje granne
merlette ormò scordate
e nute pietra)
Apoggiata nti tette
na lindiera
ncla tramontana
che canzona i súmmie
Scalette
Salgono lente
le scalette sul colle
che da secoli
chiamano del Sole
piegate come fossero
un organetto disteso
dalle mani di un suonatore
(o immagina se no
ventagli grandi
trine ormai dimenticate
e diventate pietra)
Appoggiata sui tetti
una ringhiera
con la tramontana
che si burla dei sogni