A se stesso, ai morti, a Seamus Heaney, a Yves Bonnefoy, a Pablo Neruda, a un tu che è l’uomo, a un tu “che non ama essere detto”. La poesia di “Esercizi di riparazione” di Biagio Accardo ha tanti destinatari, diversi temi. Fra questi la poesia stessa, la domanda “Ma come si fa la poesia, quella vera? / Si esce al mattino, di buon’ ora, / e si va nell’orto a guardare, una ad una, le piantine del pomodoro appena / piantate, si controllano le zucche” […] Poi, ma solo dopo / questa lezione di fedeltà alle cose, / fai la tua professione di fede: prendi / la penna e scrivi, prendi la penna e loda”. Una poesia che ha anche un suo tempo, un suo momento specifico: “L’inverno è il tempo buono / per la poesia: il suo è un buon terreno”. Così come ha una sua definizione che non possiamo non notare di montaliana memoria (nemmeno troppo nascosta): “Non dirmi una parola che non sia pane, / pane spezzato con un po’ di cenere, colmo di vuoto”. Una visione della vita prima che della poesia, quella di Accardo, che nasce dalla presenza importante del padre: “povero Ulisse su un carrello / ferroviario”. Questo genitore che è stato uomo del passato, che è stato pietra e ferrovia e lavoro e sudore. Che è stato terra, e ha insegnato in qualche misura la lezione più importante che è il tronco portante dell’intera opera: “riparare ciò ch’è rotto, risanare / ciò che si ammala, rialzare ciò che cade”. Un padre dimenticato? Perduto? Apparentemente no, se non ritrovato: “Le foglie cadute / non sanno più delle loro radici / e la parola sosta lontana / dal cuore”. Perché vivere è riparare, ritrovare, confrontarsi con una verità che “è così, bisogna / andarsela a cercare, / anche se ci costringe al fuori pista”. Ma il fuori pista è spesso chi siamo, la nostra fatica, la nostra umanità di fronte agli uomini e di fronte a Dio. E di fronte a noi stessi: “Donaci tu / questi giorni logori che iniziano a fatica, / che finiscono stremati, questi giorni / vissuti, confusi e dimenticati, / questi giorni col filo del bene / a stento rammendati”. Un esercizio di riparazione che costa fatica, sudore, vita, ma che è il dono della vita stessa all’uomo. Forse addirittura di Dio, come l’autore ipotizza: “in questo, credo, la frazione in noi della Sua divinità” (Alessandro Canzian)