Premio Bologna in Lettere 2021
Enea Roversi – Poesia come teatro di suoni e immagini: su Bamboo Blues di Eugenio Lucrezi
Il 30 giugno 2009 muore a Wuppertal, in Germania, la grande coreografa tedesca Pina Bausch. Pochi giorni dopo, il 4 di luglio, si tiene a Spoleto, in occasione del Festival dei Due Mondi, la prima italiana della sua coreografia Bamboo Blues, ispirata alla cultura indiana.
In quei giorni il poeta Eugenio Lucrezi è ad Agropoli, in Cilento, ospite di un amico ed è proprio lì che apprende dalla radio le notizie riguardanti la morte della coreografa e la prima del suo spettacolo: in quell’istante, sul terrazzo di una casa nel Cilento, ecco che nasce, come per folgorazione, l’idea del testo Bamboo Blues e poi dell’intera raccolta poetica che porta il medesimo titolo.
Che sia stata proprio un’icona della danza a ispirare il poeta è circostanza niente affatto bizzarra: se ci si pensa, infatti, la poesia di Lucrezi si muove come fosse una danza, le sue parole fendono l’aria come movimenti di una coreografia.
Poesia come movimento, dunque, ma anche come un vero e proprio inno all’arte, intesa nelle sue molteplici forme: danza, letteratura, musica, pittura.
In Bamboo Blues troviamo infatti numerosi riferimenti: da David Bowie a Maria Callas alla già citata Pina Bausch (splendidi i versi finali del testo a lei dedicato che recitano a Pina in un istante, e sei tutta / abbraccio intorno al nulla, concentrata), da Amelia Rosselli a Octavio Paz, da Flannery O’ Connor ai fratelli Brontë (non solo le tre celebri sorelle, ma anche il loro fratello Branwell, di solito ignorato) e poi Rigoni Stern e Zanzotto (omaggiati insieme nella stessa poesia), ma non solo.
Numerosi sono anche i rimandi alla pittura: Lucrezi infatti cita e omaggia artisti appartenenti a varie epoche, quali Jakob Bogdani, Andrew Wyeth, Paul Delaroche, Pontormo e Rosso Fiorentino, fino alla pittrice napoletana Maria Palliggiano, che visse una vita breve e tragicamente travagliata.
Da rimarcare anche il dialogo impossibile, ma quanto mai vivido e appassionato, tra Lucrezi e Dylan Thomas, ambientato nel giorno della morte del poeta gallese, quando lo stesso Lucrezi era al mondo da centosette giorni, con l’infante che invoca l’attenzione del poeta: Ma tu non mi ascoltavi, quello stupido / pazzo che ancora sei per centosette / giorni non ci fa caso al fantolino.
In Bamboo Blues Lucrezi ci racconta la vita e la morte, attraverso la sua personale e caleidoscopica galleria d’immagini: la levità con cui distribuisce i propri versi si fonde mirabilmente al rigore della forma, alla sostanza del logos.
Ne sono la dimostrazione versi quali È questione di luce. Di profeti / uccisi dal deserto. Di risorti / di cui si è persa traccia. Di non morti / che stanno in fila con grande disciplina oppure Cos’è la foresta? È l’incanto / dei morti e dei senza paura.
Siamo di fronte a una poesia che rinuncia alla scontata immediatezza e preferisce chiedere al lettore uno sforzo di riflessione (sforzo che, alla fine della lettura, sarà per quest’ultimo abbondantemente ricompensato).
Scrive a questo proposito Mario Persico nella lettera pubblicata in calce alla raccolta: “Nelle sue poesie la parola si anima, si fa inquietante, costringendo il lettore a prestare un’attenzione particolare.”
La parola si anima, è vero: a Lucrezi piace inventare attraverso il linguaggio poetico ed è così che nella sua poesia ci s’imbatte in raffinate allitterazioni e consonanze, oppure in giochi di parole, mai vacui e mai fini a sé stessi.
Si prendano ad esempio versi quali la statua statura oppure Mi fai male e rimale o ancora Nube. Nubesco nei quali il vocabolario di Lucrezi si materializza e la parola si fa suono: come scrive Antonio Perrone in una recensione di Bamboo Blues pubblicata sulla rivista Incroci on line, questo è un “Libro scritto per essere letto a voce alta”.
Mi piace pensare (e non mi pare per nulla azzardato) che le poesie di Lucrezi assomiglino a veri e propri allestimenti teatrali e come tali si possano interpretare.
In esse la parola, si diceva prima, si anima e si fa movimento ed è così che tutt’intorno alla parola prende corpo il teatro di immagini e di suoni che Eugenio Lucrezi allestisce con non comune abilità e con sincera passione.
Prendono vita le danzatrici e i danzatori di Pina Bausch, con i loro movimenti circolari, appare la figura ieratica di Maria Callas, il Duca Bianco canta Loving the Alien e Amelia Rosselli osserva, seminascosta, mentre le scenografie prendono le forme e i colori delle tele di Delaroche o di Pontormo.
Bamboo Blues evoca l’episodio e l’epopea, il passato e il presente, il posto visitato e il luogo immaginario: è la memoria che scardina e irrompe, lo spazio che muta e si stravolge attraverso la parola e il pensiero.
In Lucrezi convivono la tradizione (alla quale guarda e attinge con rispetto) e l’avanguardia (dalla quale si lascia coscientemente sedurre): per il suo teatro poetico si serve di un linguaggio ricco e mobile, colmo di citazioni non sempre immediate (ma le note dell’autore aiutano a districarsi agevolmente) e pur sempre dense e ammalianti.
Tra i tanti spunti che la lettura di Bamboo Blues mi ha suscitato, vorrei ricordare alcune delle immagini folgoranti (quasi dei lampi improvvisi) disseminate da Lucrezi nei suoi testi: carezze pneumatiche, molecole in sonno, iato incontrollato, onda nebulare, febbre figurale, fondali stellati.
Bamboo Blues è dunque un testo che esercita sul lettore il proprio potere di fascinazione e lo fa con una scrittura complessa e articolata, sinuosa e geometrica: la poesia che, per concludere, si può considerare alta.