Giorgia Monti, La bambina – Nota critica di Maria Luisa Vezzali

Premio Bologna in Lettere 2021

Giorgia Monti, La bambina – Nota critica di Maria Luisa Vezzali

 

Essere bambina è una condizione acronica, sospesa tra le origini e la loro imprendibilità. Una condizione che Giorgia Monti – già vincitrice del primo premio di Bologna in Lettere per l’inedito nel 2019 – conosce bene, percorrendola da quando ha iniziato a scrivere e custodendola nella sua indole di persona, oltre che di autrice, come scaturigine di domande creative e di effervescenze vitali. Una condizione che da sempre ha come genere eletto per manifestarsi la fiaba, e puntualmente il testo proposto da Monti quest’anno è costruito su un sottotesto fiabesco che ne costituisce la cisterna metaforica e il fascino premoderno. La casa nel bosco è topos eterno di una congiunzione con un femminile oscuro e fatale, capanna della Baba Jaga, luogo in cui, mentre si sperimenta ogni separazione iniziatica, si riscopre e si sconta il legame doloroso con gli antenati (le caramelle lasciate come pegni di dolcezza passata nella tasca del nonno morto). La privazione è la chiave d’accesso al passaggio, nella carne che è sempre meno / sempre meno nel piatto, nell’ortica con cui tessere a mani piene di sangue (come ne “I cigni selvatici” di Andersen) lenzuola in cui dormire da sola, nel gelo che si deve attraversare con i piedi bagnati dentro le scarpe. Piedi che portano al fiume. Il fiume ha sempre chiamato perché un corpo lo trasfigurasse, a segnare un confine o una rinascita, dentro il groviglio di selve che hanno braccia di maschio, di padri o cacciatori, a selve che si fanno linguaggio anche quando il loro messaggio parla di tradimento. Nelle fiabe i tradimenti sono portali, conducono di fronte a una consapevolezza che può essere nuda e difficile, ma, finiti i sogni ed esaurito il pianto, guida a un trapasso notturno, in cui la bambina abbandonata, la bambina sola, ha ormai accettato che non le si addice più la protezione del nido (un nido, dopo tutto, non è… sempre… un riparo di sterpi?) – e può anche affrontare l’agnizione, l’individuazione della vera stirpe a cui appartiene. Nell’ultimo movimento, infatti, la terza persona singolare approda a un noi. E se il plurale racchiude ossimoricamente le nozze con l’assenza, con il pauroso chiarore del vuoto, il fatto che tale vuoto sia congenito implica comunque un nascere-con, una linea genealogica che riconosce nella poesia il primigenio debito con l’impossibile, quella presa mancata alla luce che è per definizione il nucleo più autentico dell’atto stesso della scrittura.