Francesca Del Moro. Nota critica su “Il poco che ci resta” di Raffaele Floris
In questa mini silloge proposta per il premio Bologna in Lettere, Raffaele Floris utilizza, com’è sua abitudine, schemi metrici regolari: tutti i componimenti sono infatti composti da tre quartine di endecasillabi rimati (il primo a rima incrociata, il secondo e il terzo a rima alternata, con le rime uniformemente piane). La regolarità della struttura è movimentata al suo interno dalla presenza di frasi interrogative, accumulazioni, nonché dalla sfasatura tra la scansione metrica e quella sintattica, con un frequente ricorso all’enjambement. L’adesione ai metri tradizionali caratterizza i versi di Floris fin dai suoi esordi, nata da quella che egli stesso riconosce come una volontà di confrontarsi con il verso classico (inizialmente il novenario e il settenario, magari alternati a versi liberi, poi prevalentemente l’endecasillabo) e plasmatasi sulla lettura dei libretti d’opera. Una passione, quest’ultima, che rispecchia la sua vocazione musicale, espressa dapprima nello studio del pianoforte e poi portata avanti nella scrittura di testi sulla base di melodie già predisposte. L’amore per la musica e la volontà di decifrarne e tradurne il linguaggio (l’autore ama leggere gli spartiti) dà come esito una poesia in cui il rigore formale coesiste con un’impressione di fluidità e leggerezza: in questi versi metricamente ineccepibili non si percepisce mai alcuna forzatura, né la minima traccia della fatica che un rispetto così inflessibile degli schemi scelti può comportare.
Le tre poesie portano avanti quelle che l’autore chiama “riproposizioni e variazioni” sui temi a lui cari, primo fra tutti il paesaggio di campagna da lui inquadrato con precisione fotografica fino a catturarne, zoomando, i dettagli: il torrente, i salici, le radici, i tronchi, i bulbi, gli steli, i rami senza linfa, le cinciallegre. Ai particolari della natura si affiancano quelli riguardanti la vita e i mestieri umani: la cascina, la cantina, il mosto che fermenta, le pesche sulla stuoia, le bacche e l’uva passa sul balcone. È un mondo contadino, in cui il dialetto, altra scrittura praticata dall’autore, sembra sotterraneamente, implicitamente scorrere, affiorando una sola volta nel nome proprio Carléi. È un mondo scandito dall’avvicendarsi delle stagioni: l’estate, l’inverno e soprattutto l’autunno, predilezione condivisa con il poeta francese Jules Laforgue, che qui è citato forse inconsapevolmente (“È la stagione”). Autunno, stagione malinconica per eccellenza, che ci porta a riflettere sulla caducità nostra e del mondo in cui viviamo (“vive, muore”).
La stessa caducità, il sentimento dell’effimero si avverte fin dal verso di apertura della prima poesia: “Il poco che ci resta: quel profumo” che rimanda all’incipit di un altro componimento dell’autore dal titolo “Camera oscura”: “Non ci rimane molto di quei giorni se non un graspo”. Un verso contenuto nella raccolta La macchina del tempo, titolo che potrebbe suonare appropriato anche per questa breve silloge, in cui appare forte il desiderio di trattenere ciò che è stato. Se è vero che “Non c’è mai niente che ritorna davvero” (autocitazione preferita dall’autore), nondimeno ci portiamo dentro il nostro passato, lo custodiamo come un tesoro di visioni, sensazioni, relazioni. E il passato è pronto a riaffiorare proustianamente richiamato dalle percezioni sensoriali, prevalentemente olfattive nella prima poesia (il profumo delle pesche e gli altri odori che trascina con sé, il tanfo della cantina, i profumi del miele amaro, del rosmarino, del mosto che fermenta e dell’incenso) e visive nella terza (le piume sgargianti, l’onda azzurra e d’oro).
Il tema della campagna potrebbe far pensare istintivamente a una natura idilliaca, pacificata e pacificante, ma non è questo il caso. È l’autore stesso a negarla esplicitamente contrapponendo la quiete di un’estate ideale e la vitalità talvolta violenta della stagione reale. In verità è proprio di contrasti che vivono queste poesie, di sorprendenti e spesso stridenti giustapposizioni, quali il furore del respiro e i deliri dell’estate. Accogliendo in sé “la furente protervia dei soprusi, degli scorni” e ancora “la resa, il disinganno, il batticuore, la fatica di stare sul chi vive”, la natura evocata è problematizzata, attraversata da attriti e tensioni, come la vita umana (“È questo ciò che noi siamo”)