Premio Bologna in Lettere 2021 – I Premi Speciali – Ofelia Prodan

Enzo Campi

La differAnce dans la répétition

(Su Elegie allucinogene di Ofelia Prodan, Trad. M. Barindi, Edizioni Forme Libere, 2019)

 

 

“Finché noi poniamo la differenza come una differenza concettuale, intrinsecamente concettuale,
e la ripetizione come una differenza estrinseca, tra oggetti rappresentati sotto uno stesso concetto,
sembra che il problema dei loro rapporti possa essere risolto dai fatti.
Ci sono o no delle ripetizioni, oppure ogni differenza è in ultima istanza intrinseca e concettuale?”
(Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione).

 

 

 

Deleuze, citando Gabriel Tarde afferma che “[…] la differenza è a un tempo l’origine e la destinazione della ripetizione, in un movimento sempre più «possente è ingegnoso», che tiene «sempre più conto dei gradi di libertà»”. Si tratta di una ripetizione, come afferma lo stesso Deleuze, “differenziale e differenziante”. Per queste, e altre ragioni, il titolo di questo breve e inesaustivo sguardo recita differAnce e non differEnce. Non solo per fare il verso al differimento derridiano ma, anche e soprattutto, per instaurare, fin dall’inizio, da un lato l’idea di un movimento (Deleuze lo avrebbbe definito “intensivo”) che qualifica e caratterizza lo spazio designato e disegnato dal testo dell’opera di Prodan, e dall’altro lato il continuo avvicendarsi di quelli che Tarde definiva “gradi di libertà”.

Bisogna notare che il titolo dell’opera, Elegie allucinogene, sembra quasi fornire una sorta di alibi al contenuto e all’eccedenza libertaria espressa, come se l’allucinazione potesse giustificare ciò che, in realtà, non dovrebbe essere giustificato.  C’è una costruzione interna di tipo metamorfico-evolutivo tra oggetti che, venendo meno alle funzioni a loro deputate, rischiano lo scivolamento nello status di soggetti. Nell’opera di Prodan spesso sono proprio gli oggetti a creare, nei rapporti inconciliabili con altri oggetti, una sorta di inusitata e paradossale simbiosi tra specie e ordini diversi, per quanto gli oggetti, proprio per la loro capacità trasformativa, abbandonando la loro nudità formale e concettuale, si travestono in altro-da-sé cercando improbabili ma plausibili incontri con altri oggetti anch’essi già travestiti (ed è proprio questo doppio, o meglio multiplo travestimento a creare la differAnce dans la répetition). A un primo sguardo, magari poco attento alle implicazioni filosofiche differenziali, si potrebbe pensare a una continua mistificazione del reale. Ma la situazione è ben diversa: non si può mistificare una realtà che non esiste. Bisogna pensare a una plausibilità parallela alla realtà e innestare in essa degli oggetti che siano in grado di drammatizzarla. Solo così potremmo leggere: “il cane rosicchiava un calzino lungo e vivacemente colorato nel quale erano nascoste  delle caramelle. il calzino ha pazientato quanto ha potuto finché è uscito dai gangheri e ha mostrato le zanne ringhiando. il cane ha guardato sorpreso il calzino, che ha ringhiato di nuovo. il cane si è spaventato e ha aperto la bocca per abbaiare, ma il calzino ha fatto uno sforzo, ha assunto le forme di una mitragliatrice e ha sparato a raffica contro tutte le caramelle in bocca al cane che le ha ingoiate sbavando di piacere e si è arreso senza condizioni” (p.24). Non lasciatevi ingannare dal carattere consequenziale e descrittivo del dettato. È quel movimento intensivo, interno al testo, a permettere la drammatizzazione della descrittività. Difatti l’oggetto (in questo caso specifico: il calzino) si presenta non come sostanza originale ma come un artefatto differenziale che può essere inteso e frainteso a seconda della sensibilità percettiva del lettore. Nel ribaltamento dell’ordine delle cose e nel pervertimento di ciò che potrebbe essere definita logica formale, invece di trovare l’io e l’altro come principi cardine dell’alterità e quindi come soggetti deputati alla narrazione, ci troviamo a fare i conti con un oggetto-io e con un oggetto-altro (si guardino a titolo d’occorrenza almeno: “la patata con gli occhiali” e “il dito di latta di un feto” nell’elegia 2; “La sporta zitella di rafia” e gli “algoritmi” nell’elegia 4; lo “stomaco suicida” e “l’aquila impagliata” nell’elegia 5) che, in quanto noemi percettivi (nel senso di soggetti della percezione) non possono rappresentare una singolarità, perché sono perfettibili e modificabili da una percezione esterna non noumenica e che si sviluppa lungo un asse stracolmo di altri oggetti. Per quanto l’intuizione percettiva dell’autrice trasformi il suo dettato in una res extensa, in una ex-posizione priva di limiti formali o che si pone al limite di una nuova oggettualità, quella che potrebbe sembrare una mera rappresentazione della psiche o dell’inconscio dovrebbe invece essere considerata come un’appresentazione (con buona pace di Husserl, per l’estensione di un suo concetto), perché implica una sorta di apprensione dell’immanenza che si ritrova proiettata di getto nei registri della trascendenza. Naturalmente non sono l’oggetto-io e l’oggetto-altro a essere apprensivi ma lo spazio-tempo del testo che riceve in sé gli oggetti, ovvero il flusso coscienziale di una mise en travail della trascendenza. Una trascendenza intenzionale, voluta e che si praticizza in un diktat impuro, asimmetrico, quasi disfunzionale, proprio perché estremamente funzionale. Si potrebbe parlare di una disfunzionalità intenzionale e crudele. Difatti in alcune elegie sembra che l’oggetto-io per quanto forgiato nella hýbris della propria volontà di potenza sia comunque destinato a subire una sorta di punizione (tísis). E allora quella disfunzionalità intenzionale potrebbe anche essere rivolta a un depotenziamento delle singole parti nei confronti del tutto. L’oggetto-altro è formato da tutta una serie di gradi di potenza, asimmetricamente divisi tra intensità piccole, medie e grandi. Per cui ci troveremo al cospetto di oggetti piccoli (o micro-strutturati), apparentemente insignificanti, sostanzialmente servili, che servono alla funzionalità del tutto, e servono la funzionalità del tutto favorendone la metamorfosi ripetitiva e differenziale; di oggetti medi (o interposti e direzionali) che rappresentano le linee di collegamento, le strade da percorrere per passare da un grado all’altro; e oggetti grandi (o macro-strutturati) che aspirano, per così dire, al passaggio dallo status di oggetto-altro a quello di oggetto-io.

L’oggetto-io è sia il tutto che la sparizione del tutto, una sorta di combinazione agente tra finito e infinito, secondo la regola, quasi hegeliana, che l’infinito si dà solo nel suo dileguarsi. Ma questo suo dileguarsi corrisponde al momento della sua produzione. Se il tutto, in quanto esposizione simultanea dei vari gradi di potenza, viene identificato nella compattezza organica di un monoblocco testuale, è anche vero, o comunque plausibile, che non potrebbe essere rappresentato se non nel momento in cui sparisce. Per questo si è accennato a un’appresentazione e non a una rappresentazione. La rappresentazione tende a uniformare perché deve creare un equilibrio. Mette da parte il piccolo e il grande prediligendo solo le forme medie. L’appresentazione di Prodan invece, pur essendo costituita da monoblocchi testuali, mette al lavoro la differAnce come hýbris. Crea cioè una serie di oggetti-altri, sottoposti e insieme sovrapposti, in modo che ogni oggetto sia subordinato a tutti gli altri. Così facendo la tracotanza, e quindi la presunta sovranità, dell’oggetto-io deve abbassarsi al livello della presunta servitù degli oggetti-altri. Naturalmente il processo è reversibile: alla discesa dell’io corrisponde, sempre e comunque, la simultanea ascesa dell’altro. Questo perché Prodan sembra voler creare un insieme dove il caos possa fluire in una modalità ordinata, come se fosse pervaso da una sorta di ordine superiore rivolto a creare un solo «momento totale» in cui il tutto non rappresenta altro che il concetto, per quanto fantastico, visionario o surrealista possa essere o risultare. Se Deleuze fosse ancora vivo forse mi avrebbe concesso questa forzatura: il concetto è qui l’eterno ritorno della ripetizione differenziale del rapporto tra finito e infinito, tra apparizione (produzione) e sparizione (dileguarsi). Per queste ragioni il flusso si forgia attraverso un’oggettualità orgiaca che si espleta mediante un’appresentazione compatta in cui il tratto stilistico più frequente è rappresentato dall’uso frequente dei punti al posto delle virgole, come a voler innestare il finito nell’infinito e creare quindi un rapporto tra queste due macro-categorie da cui nasce e di cui si nutre la scrittura.

Da questi presupposti, per parlare con un minimo di criterio dell’opera Elegie allucinogene di Ofelia Prodan bisognerebbe ricorrere a  movimenti storici quali la patafisica (nel dispiegamento fino ai limiti estremi delle soluzioni dell’immaginario), il surrealismo (nell’accostamento tra due o più elementi di diversa natura e specie e in quella che si potrebbe presupporre come scrittura automatica) e il dadaismo (per una velata indisponenza e una certa provocazione che talvolta traspare tra le righe).

Non essendo questo il contesto più adatto ci limiteremo a riportare un passo di Derrida sulla differAnce[1], per poi chiudere con l’elegia 11 bis di Prodan.

 

La différance è ciò che fa sì che il movimento della significazione sia possibile solo a condizione che ciascun elemento cosidetto «presente», che appare sulla scena della presenza, si rapporti a qualcosa di altro da sé,  conservando  in sé il  marchio dell’elemento passato e  lasciandosi già  solcare dal marchio del suo rapporto all’elemento futuro,  dato che la traccia si rapporta a ciò che  chiamiamo il futuro  non meno che a ciò che chiamiamo il  passato, e dato che essa costituisce ciò che chiamiamo il presente proprio grazie a questo rapporto con ciò che non è tale: assolutamente non è tale,  non è cioè nemmeno un passato o un futuro intesi come presenti modificati.

 

 

la luna prostituta è appostata all’angolo e si sbellica

dalle risate. in tasca ha un gatto con indosso

un vestitino circense. dal cervello esce un nugolo di

mosche. il vestito nero copre pudicamente il cielo

dilatato al massimo. le stelle scintillano timidamente

riflesse nell’acqua piena di escrementi.

il macinacaffè simula discretamente un difetto

alla gamba sinistra. La luna a forma di pesce

è accomodata sulla sedia e beve a piccoli sorsi

in liquore macinato fino. in tasca passeggia un

topo ubriaco che si rode la coda con insistenza.

dal cervello esce della schiuma bianca da barba.

il vestito rosso copre gentilmente il cielo

durante l’orgasmo. Il macinacaffè mette un cd

di musica psichedelica. la luna cieca ascolta

con le orecchie a punta da elfo. dalla tasca estrae

un soprammobile di porcellana

dal cervello andato in cortocircuito.

le stelle stendono le gambe contorte e stanche

sul cielo annoiato. il dj mixa funghi allucinogeni.

la luna entra silenziosamente in trance.

il vestito da sposa copre

il cielo in estasi mistica.

le stelle luccicano in trance

in modo intermittente.

il macinacaffè digrigna e macina fino e sottile

il corpo contorto del dj che entra ed esce

dal trance in maniera brutale.

 

 

[1] Jacques Derrida, La différance, in id. Margini della filosofia, Einaudi, 1997, p.40

 

 

Ofelia Prodan (nata a Urziceni, vive oggi tra Bucarest e l’Italia) è attualmente una delle poetesse romene più apprezzate. Tra le sue raccolte poetiche romene si segnalano: L’elefante nel mio letto (2007; Premio per il Debutto dell’Associazione degli Scrittori di Bucarest, 2008; Premio della rivista Luceafărul, 2008; selezionata per il Premio Nazionale di Poesia Mihai Eminescu – Opera prima, 2008); Ulisse e il gioco degli scacchi (edizione bilingue romeno-inglese, 2011); La guida (2012; Premio Nazionale Ion Minulescu, 2013); Senza uscita (2015; Premio Nazionale di Poesia George Coșbuc, 2015; Premio Nazionale Mircea Ivănescu, 2016); Il serpente nel mio cuore (2016; Premio Libro di poesia per il 2016 al Festival Nazionale Avanguardia XXII, 2017). Ha inoltre pubblicato, nel 2018, Voci con difetto speciale (diario di Facebook). Figura nell’antologia Voor de prijs van mijn mond (a c. di Jan H. Mysjkin, Poëziecentrum edizioni, Gent, Belgio, 2013) che comprende 12 dei poeti romeni più rappresentativi degli ultimi 60 anni (Nina Cassian, Nichita Stănescu, Ana Blandiana, Nora Iuga, Ion Mureșan, Mircea Cărtărescu ecc.). Sempre tradotte a cura di Jan H. Mysjkin, nove sue prosopoesie sono state pubblicate nell’antologia Pour le prix de ma bouche (Les éditions l’Arbre à paroles, Belgio, 2019). Un’antologia d’autore è uscita in Spagna con il titolo High (2017). 

In Italia, ha pubblicato su Nuovi Argomenti, Atelier e L’Immaginazione e ha sostenuto numerose letture pubbliche, come invitata, tra le altre manifestazioni, al Festival Internazionale di Poesia Palabra en el mundo (Venezia, 2018), al Festival Letterario della Sardegna L’Isola delle Storie (Gavoi, 2019) e al Festival Ottobre in Poesia (Sassari, 2019). Nel 2019 è uscita la sua raccolta poetica Elegie allucinogene (Premio speciale del presidente di giuria nell’ambito della VII Edizione del Premio Bologna in Lettere, 2021; menzione d’onore al Premio Letterario Internazionale Città di Sassari, 2020). Una silloge di sue poesie è stata selezionata per l’antologia Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo, 2021), a cura di Alma Poesia e un’altra per l’antologia BorderLine 2000. Dieci autrici per un’antologia della poesia di oggi (edizione bilingue italo-romena, Ratio et Revelatio, Romania, 2021; postfazione di Sara Vergari), curata di Daniel D. Marin, che comprende 10 poetesse italiane e romene da Antonella Anedda e Maria Grazia Calandrone a Laura Liberale e Maria Borio. È membro dell’Unione degli Scrittori di Romania e del PEN Club Romania.