Ianus Pravo, Tra Segno e Ventre
Ianus Pravo, con questo trittico carnal-mistico che affonda le radici in una concezione del symbolon planante dalle proprie istanze iperuranie sul sostrato materiale della coscienza, scrive in realtà un microtrattato filosofico intorno alle origini della percezione coscienziale e al fine ultimo dell’esistenza umana. E lo fa infarcendo la versificazione di termini sanscriti tratti dalla filosofia dei Veda e del Buddismo Zen, trattati come fossero veri e propri senhal, termini solo apparentemente fittizi dietro alla significanza immediata dei quali si nasconde però, in prospettiva traslucida, qualcosa di molto poco religioso, ovvero la poetica stessa dell’autore, da sempre interessato alla tematica del sacrificio verginale della carne e del drammatico discidium che giocoforza separa da secoli, nella storia del pensiero, anima e corpo.
Nessun lemma citato in questi versi dal sanscrito o dal giapponese è forzatamente fuori posto. In effetti, le mudra di cui si parla nei testi qui presentati, all’interno della pratica yoga non sono altro che gesti simbolici che accompagnano le asana espletando una funzione di significanza esoterica. Esse coadiuvano il dhyan, ovvero le pratiche di avanzamento (quattro nel Buddismo Zen, otto nello Yoga descritto nel sesto capitolo della Baghavad Gita) che avvicinano progressivamente all’unione con Dio. Come ogni praticante yoga sa bene, il Samadhi, cioè il raggiungimento di questa unione, si ottiene quando il dhyan ha raggiunto lo stato di massima apertura del Terzo Occhio, ovvero la Visione del Sé che si realizza nella fusione con la Sostanza Universale.
L’abhaya mudra, in particolare, si realizza con la mano destra alzata davanti a sé, tenendo le dita raccolte e il pollice adiacente al palmo della mano, nella tipica posizione del Buddha; è il gesto del coraggio, o meglio della non-paura, dell’assunzione della sicurezza e della salvezza del proprio spazio interiore. Dal centro del palmo si immagina provenire un fascio di luce che illumina il mondo, col giusto pendant della varada mudra che invece si compie con la mano sinistra, tenendo le dita alzate e raccolte tranne l’indice, chiuso a cerchio col pollice, simboleggiando così la carità, la concentrazione, la pazienza, la compassione.
La gestualità delle mudra squarciano il velo sottile che separa il mondo materiale dalla Coscienza del Sé: il poeta definisce la mudra come “la gravità / liminare a fondere in vuoto”, ina situazione espressiva che evoca l’atto stesso della trasformazione incessante di tutte le cose, metamorfismo teleologico che rimescola cellule e atomi di materia in una sostanza non tuttavia di elevazione superiore, bensì piuttosto sub-liminale, nel tentativo patente dell’abbandono all’istintualità attraverso lo scavo interiore della pratica meditativa.
Tuttavia, se il trittico poetico in questione significasse solo questo, ci ritroveremmo sul terreno esclusivo della poesia mistica; e invece, la gestualità simbolica del versificare si accompagna a riferimenti sparsi alla Vergine, figura iconica in tutta la produzione poetica di Ianus Pravo, che nella propria etereità figurale si rabbassa quasi sempre a una dimensione carnalmente concrescente. Ciò accade anche in questi testi dove, per l’appunto, il “segno” aderisce al “ventre” e si fa autogestazione, self-nativity “nel seme dello zero”, realizzazione del Sé a partire dalla dimensione aurorale dell’essere nell’atto generativo/gestuale che diviene “il nudo / locativo dell’orgasmo”. Si parla di meditazione, quindi, per trasfigurare il violento impatto dell’atto sessuale primigenio, che si fenomenologizza come “un colpo di kyosaku sulla stuoia”, laddove il kyosaku è il bastone piatto con cui il monaco Zen colpisce le spalle del meditante in cerca di concentrazione: un gesto di violenza rituale, che spalanca il ventre della mente, così come lo squarcio dell’imene divelle la mente (il chakra) del ventre. La mistica sottesa alla gestazione/gestualità del dolore conduce, attraverso l’eversione della ferita ancestrale, verso l’annullamento, quel nichilismo “mistico e sensuale”, per dirla con Battiato, che permea da sempre l’intera poetica dell’Autore, e riporta all’autocoscienza dell’essere un “Kein-er”, in tedesco “Nessuno” in via di formazione, come chiosa il poeta in persona: è “la prima fraternità / tra la voce e il niente, se tra il Nessuno / e il Sono”. Come dire che, se nella materia vige la metamorfosi perenne, non siamo altro che una sorta di Nulla Olistico, in perpetua e deterministica flessione e ri-flessione.
In definitiva, se per Cassirer l’uomo è un animal symbolicum, per Ianus Pravo invece egli è, poeticamente, un simbolo animale, giacché la poesia che ne attua la narrazione è la sola, insieme alla filosofia, a detenere il valore di tramite espressivo tra il reale e la coscienza, di tramite estetico tra factum e τέλος, tra datità e scopo ultimo delle cose che si generano senza fine attesa ma con un fine sotteso, incessantemente, nella propria naturalità periscopica, nella propria corporeità assoluta.
(Sonia Caporossi)