Mara Venuto Vora
Arrendersi per ultimi. A proposito di Vora
Assai più di una mera raccolta di inediti, Vora si offre al lettore come il susseguirsi di una serie di fotogrammi, di “vecchie foto di casa”, con “la messa a fuoco casuale” ma con un andamento poematico in cui ciascun testo, privo di titolazione autonoma e separato dal successivo soltanto da poche righe, appare respiro e singulto di un’unica tramatura, di un unico canto, di un “coro di protesta”, nel quale colpa e innocenza, impeto e resa, l’esporsi e la tentazione di recedere nell’indistinto, sanno farsi voce dolente e veemente di poesia a partire da una attitudine all’esplorazione del reale che smargina costantemente in avanti, come in una sorta di veggenza, anticipando gli scenari desolati di una profanazione in atto, e all’indietro, a ritroso, scoprendo in “una mappa vissuta e dimenticata” gli “anni mangiati”, “le cose perdute nel naufragio”.
Con tutta la potenza materica che le deriva anche dall’esser evocata per voce dialettale (vora è infatti un termine locale pugliese che deriva dal latino vorare, inghiottire, e che denota sprofondamenti del suolo dovuti all’erosione delle acque), l’immagine risucchiante della voragine, del baratro, di profondità oscure e fatalmente divoratrici, è in questi versi costante di inquietudine, è dominio di significati che si addensano e precipitano – di colpo solidi, per un istante visibili, prima di eclissarsi nuovamente – per alchimia di occorrenze che funzionano da spie linguistiche di un pensiero lucido, di un dire consapevole, di un procedimento poetico nitido e coerente.
Significati, luoghi, corpi, oggetti: ogni cosa qui, come in equilibro su un pericolo sempre imminente, bilicata “tra il vuoto e il vuoto”, sembra costantemente incalzata da una insidia verticale, perpendicolare alla terra, da una vitale non meno che oscura “sacca gastrica” pronta a nasconderne la verità, a digerirne l’essenza.
Cadute, bocche, sedie sfondate, toppe, scoli, buchi e buche, tombini, vuoti, trincee, strappi, fossi, sdentature, persino: di testo in testo, come dispositivi incistati nello spessore della pagina-fotogramma, parole-pugno, parole-rivoltella, materializzano fulminanti il foro, la voragine, il punto di caduta in cui è proprio la parola, come l’anello montaliano, l’elemento che non tiene. E che voracemente diviene inghiottitoio, “bocca di parole impotenti/a dire ciò che è stato”, mentre lo spasimo del poeta vorrebbe al contrario saperne fare spiraglio d’aria, fessura dalla quale guardare la realtà per coglierla dicibile nella sua flagranza d’istantanea, spazio di utilità da cui divenga possibile cercarsi e guardare al passato, per quanto dall’interno di un ossimorico slancio in avanti, come assai felicemente espresso dai versi “e i vuoti sono un calendario dell’avvento/un personale conto alla rovescia per ciò che è stato” presenti in uno dei testi più eloquenti e significativamente esposti, non foss’altro perché è uno dei pochi nei quali al ricorrente soggetto impersonale o plurale viene contrapposta una voce che dice io. Si tratta di un testo i cui versi liberi, qui come in tutta la silloge sbrigliati totalmente dall’esigenza di darsi irreggimentazione metrica, mentre dichiarano uno scacco, mentre enunciano l’impotenza della parola “a scrivere ciò che è stato”, svelano con elegante tenerezza l’aspirazione di una poetica attraverso un inatteso endecasillabo, “È lì che più di tutto vorrei andare”, verso che chiude la poesia ma in realtà apre a un ulteriore scenario, in un nuovo illuminante sforamento: negando, di fatto, con il suo darsi e in quella forma, l’impossibilità enunciata prima, riaffermando lo spinta potente della volontà e la fecondità dell’impeto poietico, ed esponendosi in prima persona e non senza un nodo in gola, con l’emozione che toglie il fiato resa plastica dalla sinalefe tra gli ultimi due termini.
Vengono in mente le sperimentazioni materiche di Burri (“agli strappi cedere i primati”), in particolare opere come Rosso plastica, nelle quali della materia non restano che lacerazione e brandelli, marciume e mancanza, e un gesto poetico di delicato furore. Viene in mente il Montale di Forse un mattino andando in un’aria di vetro, lo strappo nell’ordine dei fenomeni e la visione del nulla, la rivelazione del vuoto. Ma se in Montale l’esito dichiarato è l’andarsene nella condanna al silenzio decretata dalla scoperta di un impronunciabile segreto, in Vora, sin dal primo testo della raccolta, travaglio e orgoglio vibrano nell’opposizione dialettica marcata significativamente da una rima interna. Ed è l’orgoglio, ancora, che torna a suonare (o tuonare) nell’ultimo dei testi presentati, reiterato e in rimalmezzo, questa volta, con la parola figlio. Raggiunto un certo grado di consapevolezza (“alzarsi e vedere che non esiste nulla/quel terrore è la vita”), qui sembrerebbe che, con “leggerezza levriera”, la scelta sia piuttosto di “esporsi con la fronte al soffio dove arriva/più forte”. Contrapposta ai vani accumuli non solo retorici di “pelle tessuti nodi capelli”, la scrittura è ancora, la poesia può essere ancora, un “arrendersi per ultimi”, con orgoglio e responsabilità filiale, disseppellire le radici sepolte e farne talee, con devozione.
(Patrizia Sardisco)