Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Marilena Renda su Profilo minore di Federico Federici

Federico Federici, Profilo minore

 

 

 

Profilo minore è l’ultimo libro, pubblicato nel 2021 da Aragno, del poeta e artista multidisciplinare Federico Federici. L’esperienza del lettore che attraversa questo libro può essere perfettamente riassunta nelle note finali, in cui si fa riferimento alla genesi dei testi come piccoli conglomerati di senso e di suono poi collegati, agglutinati o ricollocati secondo logiche via via diverse. L’intero spazio del testo, scrive Federici, “si è configurato tale e quale a un sistema pieno di interazioni, potenziali o presenti in quel momento, in uno stato evolutivo già maturo e in espansione, ma non definibile per sempre e perciò non definitivo”; questo spiega i rimandi interni, la ripetizione di parole, l’insistere quasi ossessivo su alcuni nuclei chiave, primo tra tutti il nucleo tematico parola-silenzio. Il risultato finale, come nella migliore tradizione sperimentale, è un testo che si presenta non come definitivo, ma come uno tra possibili, uno dei tanti testi che il poeta avrebbe potuto aggregare e il lettore trovarsi davanti. Da lettore che ama la complessità ma non i giochi combinatori senza una vera ragione interna, Profilo minore mi ha colpito fin dai primi testi come un vero gioco combinatorio, un gioco serissimo come devono essere d’altronde i veri giochi. Da un lato è vero che le parole potrebbero facilmente essere sostituite con altre parole, ma dall’altro il nucleo sottostante è talmente denso – mortale, è la parola giusta – che i testi che leggiamo possiedono loro malgrado una forza definitiva e si fanno ricordare senza l’ambizione di farsi ricordare. Al centro di  questo nucleo di carne e ossa c’è la registrazione di un quotidiano ripetitivo e votato all’entropia, e c’è soprattutto un desiderio di sottrazione, intesa come intenzione di sottrarsi al gioco mortale per poterlo giocare meglio. Al centro ci sono le voci di Giuliano Mesa (questa sorda sirena, / e finalmente il suono della fine / è già finita, non resta che finire), ma soprattutto la voce di Beckett che dice: “Fallisci meglio”; nella seconda parte del libro al centro, esposta per essere meglio sepolta, è la parola non detta, il silenzio tra le parole, l’idea che tacere sia la migliore forma di espressione, a partire dall’imperativo “Taci” o dall’ipotetico “Se taci”: “se taci, vibra precisa / la sola rimasta viva / parola a margine del mondo, /  non pronunciata si affina / a riga incerta del vero, / frammista alla calca / di tutti i frammenti, / inscritta nell’andirivieni / di strofe, di smorfie, se taci / la scopri – sussurra / nel fiato ai discorsi, / soffia da sopra le cose / che vogliono andarsene / come non dette”. Il ritmo delle ipotesi mi fa pensare qui ad Amelia Rosselli, mentre il nesso dire/non dire rimanda ancora una volta a Giuliano Mesa; tra due parole, ribadisce Federici, l’unico possibile legame è il silenzio. Il silenzio è il sentiero su cui si muovono le parole, così come il vuoto è il sentiero su cui si muovono le cose, tra esserci e non esserci, esserci ancora e non essere più, in un equilibrio delle cose che Federici sa dire con estrema consapevolezza ed eleganza: “prova a dirlo a tutti / e ancora, ancora come se / non si capisse che ci sei / e prima che non resti / corpo da cui fare segno / e da e dopo cui staccarsi”.  (Marilena Renda)

 

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