PREMIO BOLOGNA IN LETTERE
VIII edizione 2022
SEZIONE A
(Opere edite)
Premio speciale del presidente delle giurie
a
Carla Francesca Catanese
per l’opera
Medio Eva (Terra d’Ulivi edizioni)
“Il mito arcigno del dirupo”,
ossessioni, affabulazioni e partiture ritmiche
nella scrittura poetica di Carla Francesca Catanese
Il valore emblematico, iconico, della parola e la stratificazione di scritture diverse, intessono e al tempo stesso destrutturano la scrittura poetica di Carla Francesca Catanese, attraverso la percezione di una coralità di sguardi sovrapposti metabolizzata in versi. Ma questa convivenza di visioni irregolari, cucite insieme dalla fluidità del verso libero, non è mai pacifica. Le forze oscure delle affabulazioni attraverso le quali ci arriva la visionarietà distopica che anima la raccolta Medio Eva restano sempre in lotta reciproca, quasi tentassero continuamente di emergere l’una sull’altra per poi sopraffarsi a vicenda. Contrariamente a quanto accade in testi linguisticamente eterogenei e torbidamente diversificati, nei quali la molteplicità di tipologie linguistiche, seppur mai del tutto assimilata, è tuttavia spesso funzionale all’ampliamento del senso e della prospettiva, nella Catanese il mistilinguismo, lungi dall’ampliare all’infinito le possibilità di una lingua per effetto di una fondamentale contaminazione, ha invece come sua più immediata conseguenza l’afasia, l’inquietante prossimità della parola con la devastazione dell’urlo, l’interruzione del linguaggio e del senso, l’odore acre dell’Apocalisse:
E ci siamo calati la notte aspra/ nelle vene/ alle stanze dei piedi/ come sonetti /poeti scalzi d’unico intento/ giacere / sottoterra/ a riveder le stelle
È la maniera potente dell’autrice di conferire concretezza e spessore, quasi corporei, a un contrasto che si esercita tutto a livello psichico, in una mancata pacificazione che emerge, tramite la lingua, oltre la superficie del testo, trasformando un crudele codice espressivo in una bolgia ipnotica da moderno inferno dantesco, dove la consapevolezza atroce di essere perduti e soli diventa exemplum di un’umanità dolente e maledetta:
…e ci troviamo alla deriva/ anime storte/ che/ un Caronte qualunque/ ci offre la sponda /maledetta/ baratta col nocchiere clochard chic.
Un ampliamento del senso di smarrimento conduce, per effetto moltiplicativo, a una continua diversificazione espressiva, testimonianza concreta, quasi corporea, dell’irradicabilità presente nel corso di tutta l’opera, insidiata dalla minaccia di valenze linguistiche discontinue, come se tutte le lingue-fantasma dell’autrice si affollassero per emergere simultaneamente, creando una sorta di abisso che conduce nel mito arcigno del dirupo. Questo scenario tetro, angosciante e inquieto è lo sfondo esistenziale nel quale si inserisce questo laboratorio poetico performativo in cui appunto:
Il mito arcigno digrignerà la sua bocca di Lupo, / e allora non ci saremo per nessuno. /Che tanto gli Dei sono morti, / e sarà quasi Natale.
…
e ci siamo persi nel mito arcigno del dirupo/ sette volte cent’anni di lupo/ costellazioni magre e bombe sull’asfalto.
Il potente scavo molecolare di questo magmatico sperimentalismo esistenziale spinge dunque la Catanese verso una poetica in cui la dominante è pre-logica e svincolata da ogni scopo. Non si tratta più di esibire elaborazioni stilistiche complesse, ma di rendere fondamenti di stile le manifestazioni di un inconscio collettivo, preesistente alla stessa poeticità. Un inconscio capitalistico, globale e totalizzante in cui sopravviviamo da consumatori compulsivi anche di noi stessi. In questo impasto multisensoriale, deambuliamo smembrati, mantenendo tuttavia la nostra ambivalenza di conforto e di minaccia, per cui il fiume del nostro inferno privato continua a scorrere indifferente, nella sua ieratica solitudine:
Io voglio imparare le ombre. /a come disfare la luce.
Questa volatilità del soggetto, celato dietro la poesia sperimentale della Catanese è rafforzata anche dallo spessore concreto, un vero e proprio corpo verbale, per cui la ricerca formale, lungi dall’essere un semplice artificio, si tramuta in un vero e proprio tentativo di sopravvivenza, miseramente destinato a fallire:
Ha i suoi poligoni di tiro / la morte in vita / tu non li vedi i dardi infuocati / ci percuotono le ciglia /razzi impazziti / che raggiungono.
Medio Eva si articola così nella forma di un dialogo impossibile dell’Io devastato con un interlocutore irraggiungibile, o sempre sul punto di dissolversi a causa dell’assenza o dell’indifferenza di uno dei due soggetti in gioco, al punto che spesso le numerose invocazioni a lui/lei rivolte vengono rimbalzate verso l’Io stesso. Nella scrittura-fiume che caratterizza la raccolta, l’intento comunicativo è quindi piuttosto un dialogo mancato, l’enunciazione di un grido inascoltato che si perde nel vuoto. La struttura stessa di questo scavo molecolare nel dirupo della parola, con quei suoi movimenti vorticosi suggeriti dal fluire veloce e ininterrotto del verso libero, sembra richiamare, tanto graficamente quanto nei concitati ritmi dell’enunciazione, una sorta di disperato e affannoso inseguimento da parte del soggetto nei confronti di un’alterità sempre fuggevole, attraverso un continuo tasso di allarme della lingua. Questa identità così labile dell’Io, la sua presenza fluida e intermittente, conferisce alla scrittura un senso inquietante e polimorfo di scomposizione identitaria che contiene una desertificazione che atterrisce. Un universo orrendo in cui già si intuisce quello spaesamento, dettato dalla perdita di centralità del logos, che non trova approdi e che si snoda nei termini di una lotta perpetua tra l’estremo tentativo di resistenza di una ragione ordinatrice e il farsi strada dell’orrore, dello psichedelico sovrapporsi di strumenti di distruzione:
e tu scorgi l’Uomo Solo a sezionare il silenzio/il cespuglio/afono/in/cui/muta sgretolava la Storia/dal cappio doppio che si sentono i passi monchi
Una lotta che prende avvio dal dato formale per estendersi poi anche ai contenuti, in un continuo avvicendarsi di vere e proprie epifanie traumatiche. In quest’opera, e nel suo farsi poesia, tutto è dunque linguaggio, e tutto al linguaggio risulta in ultima istanza riconducibile Ma il legame tra poesia e ritmo sembra a volte spingersi ben oltre questa realtà di reciproca influenza, per creare una vera e propria fusione tra il codice letterario e il codice personale della lingua. Più volte, infatti, le invenzioni linguistiche e le partiture metriche, incastonate in costruzioni sintattiche e lessicali frantumate, non si spiegano soltanto attraverso i meccanismi di fusione interlinguistica riconducibili alla convivenza di diverse anime nella scrittura dell’autrice, ma sono evocate invece per ascriversi alla memoria – conscia o inconscia – della sua dissonante alfabetizzazione emotiva. Un peculiare registro che risente di un abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica e dell’immaginario, producendo una sorta di simultaneità e ubiquità della rappresentazione. Uno sperimentalismo esistenziale, che è la cifra distintiva di questa poesia, in cui l’inventio linguistica non è mai frutto dell’artificio o di una costruzione esterna ma risiede sempre all’interno della lingua stessa, per sostenere il peso della voce autoriale.
Medio Eva è dunque un osservatorio sul mondo che si stacca dalle stratificazioni collettive e individuali per imbozzolarsi in una capsula di puro oblio, annientata dall’attenzione dolorosa di tanti ingombri affettivi, mascherata da sorrisi che mostrano la genesi di un disagio profetico, in una culla senza futuro in cui ad incontrarsi sono le sorti del mondo. La dilatazione che esplora i corpi, i silenzi, gli abissi e le devastazioni di questo straordinario golfo d’ombra è sintassi di una vita che scricchiola nelle dinamiche del tempo. Il suo dilatarsi infernale è l’asservimento dei dettagli impeccabili e totalizzanti all’eternità della pena:
Siamo figli di tutti i Padri che siamo. /padri di tutti. /i figli./da quando l’Apocalisse ci somiglia/e troverò il tuo nome addosso, indelebile come il Dolore
Una misurazione di attimi relegata alla sua funzione relativa, che accelera le frane dell’esistere, demarcandone il funereo cinismo e sostituendosi alla lentezza di un’anima che si sbriciola: è questo l’altare sacrificale del male oscuro che in Medio Eva mostra la sua dimensione universale.
Dunque, senza enfasi, con una misura surreale da archeologa di passati inferni, contrapposta al mondo interiore e al mondo fisico in devastazione, Carla Francesca Catanese firma un poema didascalico sul dolore e sull’impossibilità, tutta schopenhaueriana, della salvezza, che afferma e reifica l’arte come estenuata, dolorosa, disturbante esperienza umana, l’unica che può, in definitiva, saturare di senso, quel non-senso che pur essa esprime:
E man mano i fiori ignobili, passo/illuso – del tuo sguardo, il viso d’incenso –/scoloriscono. /E si sgretolavano i piedi, dall’incedere muto,/come calce inerme che terra cade, e rimane, perpetua.
Senza fiato, a digrignare i denti, contro un mondo che lentamente sprofonda nell’incolore. (Antonella Pierangeli)
Carla Francesca Catanese è nata a Bologna, dove attualmente risiede e lavora. Ha una formazione umanistica (Lettere Moderne) con specializzazione in scienze della Comunicazione. Già giornalista, è curatrice e autrice (Cinema, Storia della Fotografia, Poesia e Narrativa). È titolare delle rubriche di critica e approfondimento cinematografico “La Lanterna Magica” (I Martedì, rivista del Centro Filosofico San Domenico) e “Pianosequenza” (Menabò – quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria). È docente alla Università Primo Levi di Bologna, dove si occupa del rapporto tra cinema, arti visive e antropologia culturale, con particolare riferimento ai fenomeni di massa e alla cronaca giornalistica. È autrice del progetto Poeticaquotidiano (poeticaquotidiano.com), intersezione tra Prima Pagina e Linguaggi sperimentali. Ha pubblicato con la casa editrice Minerva Edizioni, il volume “Fotoricordi: viaggio tra collezioni private ed album di famiglia”. Le sue liriche sono presenti nell’antologia “Poesie del nuovo milennio” (Aletti Editore) ed è stata introdotta nel “Terzo censimento dei poeti bolognesi” (Giraldi Editore). Ha pubblicato con il gruppo Kataweb-L’Espresso la raccolta poetica “Assolo per un corpo illogico” e l’antologia di racconti “Cartavetrata”. Attiva da tempo nel campo delle Arti Visive con lo pseudonimo di Francesca Modotti, è interprete e attivista della cultura digitale, senza dimenticare le radici storico/ analogiche. E’ stata finalista della terza edizione di REW[f], il festival internazionale ROMAEUROPA WebFactory 2011, per la sezione tweeteratura. Nel 2018 ha vinto la XVI° Edizione del Premio Letterario Navile[1]Città di Bologna nella sezione Poesia. Nel 2022 è arrivata Finalista (Poesia Orale e Performativa) a Bologna in Lettere e la sua ultima raccolta, “Medio Eva” (Terra d’Ulivi Edizioni, 2021), ha ottenuto il Premio Speciale del Presidente di Giuria, Enzo Campi.