Carola Allemandi
Nella silloge Sembrava il sole (Progetto Cultura, 2022, nella collana Le Gemme diretta da Cinzia Marulli) e nei recenti inediti, il percorso di ricerca poetica di Carola Allemandi si configura come interscambio osmotico di linguaggi eterotrofi in costante intersezione, in cui parola e immagine verbalizzata, strutturalmente e funzionalmente correlate, si compenetrano, con delicata potenza evocativa, in suggestive forme di esposizione multipla. Ne sia prova, in prima istanza, la natura ancipite dell’apparato lessicale, in cui si alternano, talora in suggestiva ed elegante posizione chiastica, le due aree semantiche di riferimento: alle componenti della verbalizzazione (messaggio, verbo, parola, dire, parlare, sussurrare) fa da pendant l’arsenale terminologico dell’arte visiva, segnatamente inteso nella sua diramazione fotografica (luce, spazio, figura, immagine, postura, sfocare, degradazione dei colori), fino alla simbiosi totale: «credevamo che lo spazio potesse/parlarci davvero» In questo sottile equilibrio di interazioni mutualistiche tra verbum e imago, la parola poetica di Allemandi inquadra il mondo e l’animo umano con lunghezze focali variabili, rinvenendo il quantum dell’esistenza in entrambe le dimensioni, come comprovato dalla la gnome brifronte cristallizzata in alcuni versi lapidari: «la realtà esiste attraversando una parola», ma, nel contempo, «è il lascito più ampio il nostro/stare in un’immagine». Da questa indagine scaturiscono intuizioni fulminee che l’autrice fissa in componimenti brevi e di forte impatto visivo, in guisa di fotografie verbali. Attraversandole, l’immanente trascolora, disperdendosi tra un «giorno astratto» e «l’estensione di un puro stato d’ombra»; per converso, l’aria (duplicemente intesa come respiro umano e vento, ossia il respiro del mondo) accresce la propria esperibilità sensoriale (i respiri «sbattono violenti», il vento è «troppo», mentre scuote e «ci solleva»), assumendo i tratti della sua controparte eterica, l’etere-luce, elemento che, nell’antroposofica dottrina steineriana, colpisce e illumina gli oggetti, ne mette in risalto le peculiarità differenziali, determinandone la correlata percezione nello spazio e nella distanza. Ne scaturisce una realtà liminale, trafitta da parallelismi antitetici che, nelle istantanee poetiche di Allemandi, rievocano, quanto ad atmosfera, la celebre foto che Robert Wiles scattò, nel 1947, al corpo esanime di Evelyn McHale, in cui i confini tra luce e ombra, illusione e realtà, sonno e veglia s’incrinano in un’aritmia da orologio molle di Dalì, scolorano nel fluire di «un tempo/sfumato agli occhi», sbiadiscono «nello spazio di un’attesa». Tale stato di sospensione liminare non è mera stasi, bensì esercizio di contrazione estrema della velocità, disciplina dello spirito al moto millenario che si fa esperienza estetica ed estatica di triangolazione tra terra, cielo e umano («Volgendo le spalle al pendio roccioso/le nuvole avevano la lentezza/degli angeli e la nostra»). Ciò si estrinseca nel ritmo del dettato poetico, in cui la carica propulsiva dei pervasivi enjambements è costantemente controbilanciata dalle decelerazioni imposte da una sintassi densa di iperbati e anastrofi e da un’interpunzione pervasiva che non di rado si stanzia tra i singoli emistichi, imponendo pause di riflessione, essenziale preludio a una più consapevole ripresa del movimento: «fermandosi,/si vedevano le forme nel poco/sole che filtrava farsi un’unica/figura da seguire. Il suo messaggio/era la direzione necessaria/a non perdersi». (Maria Laura Valente)