JONATHAN RIZZO ci propone due poesie di ampio respiro, due piccoli poemetti. La prima è dedicata soprattutto a Parigi, l’amata città protagonista del libro Le scarpe del flâneur (del 2020) e già apparsa nella raccolta L’illusione parigina nel 2016. Parigi è la città-simbolo del flaneur, termine coniato da Baudelaire per indicare quello che lui definisce “un botanico del marciapiede”, un conoscitore del tessuto urbano nel quale si immerge, passeggiando, dedicandosi a un’esplorazione tanto casuale quanto lenta e approfondita. Il flâneur, reso celebre da Walter Benjamin nei Passages de Paris, è una figura di aristocratico dello spirito ampiamente indagata nella storia della letteratura, da Rilke a Auster finché si arriva al cyberflâneur, il solitario navigatore della Rete che guarda con distacco il multiforme della realtà virtuale. Jonathan Rizzo preferisce ancora aggirarsi nella realtà concreta: oltre a essere poeta e romanziere, infatti, è anche animatore di incontri di poesia in varie città italiane, ama scovare gli artisti (come si faceva nell’Ottocento per le strade e nei bistrot parigini) e metterli in comunicazione, creare sinergie. Di Parigi in un’intervista a Davide Zazzini dice che “è una città che t’invita a passeggiarla. Ti seduce ed obbliga. Ne siamo tutti innamorati schiavi.” Qui Jonathan si sofferma soprattutto sul tema della paura, parola che ricorre cinque volte nel componimento, e a questa contrappone l’amore, evocato quattro volte direttamente ma soggiacente a ogni verso, a ogni invito accorato alla fratellanza. Il poeta racconta qui della sua relazione con Parigi, del suo vagare fiducioso, aperto agli altri, rivolgendosi a un voi in ascolto ma senza alcun piglio didascalico o ammaestrante, bensì come chi parla ai suoi pari, come chi sente il bisogno di stringersi all’umanità tutta per fare muro contro la minaccia della violenza e della morte. Morte che diviene protagonista della seconda poesia, in particolare la morte dell’autore incarnata dalla sua fredda tomba, una poesia che Jonathan presenta come “inedito incontro tra Whitman, Baudelaire, Ginsberg e Jonathan Rizzo, con omaggio finale a Rostand”, chiamando in causa le sue fonti ispiratrici, come fa spesso, coloro che nell’intervista già citata definisce “amici che mi fanno compagnia mentre bevo. Più che geni e artisti, persone che non hanno paura di alzare la voce davanti all’abisso della società occidentale”. Bersaglio del suo sarcasmo sono qui i poeti sgomitanti, e poi altri servi dei vari poteri, del bellicismo d’accatto, di patrie e fedi che arrivano a obbligare al sacrificio estremo. Di tono molto diverso dall’altra, questa poesia dà prova della varietà di temi e registri che l’autore è capace di maneggiare, e in particolare dimostra una grande attenzione alla musicalità, con una sovrabbondanza di allitterazioni, assonanze e incalzanti versi polisindeti. Una torrenziale, effervescente, invettiva che guarda alla morte come a una livella, indifferente e benvenuta, a spazzare via tutte le inezie e le meschinità per cui si agita il mondo. (Francesca Del Moro)