La parola “pietà” è la prima che mi viene in mente nell’accostarmi alle poesie in cui Enrico Marià propone i temi a lui cari e portati avanti con coerenza lungo tutto il suo percorso letterario. Pietà, nel senso di uno sguardo premuroso e partecipe verso l’umanità che ci circonda, le sue sofferenze, le sue difficoltà, la lotta che ciascuno porta avanti per sopravvivere, giorno dopo giorno. Pietà che ci rimanda all’accezione del latino pietas, ovvero un sentimento di devozione, di rispetto per ciò che è considerato sacro. Marià muove il suo sguardo empatico su una serie di figure di emarginati, respinti dalla società cosiddetta civile in quanto persone fragili, tossicodipendenti, discriminate, abusate, che vivono di espedienti, una generazione smarrita che spesso porta su di sé i segni di un passato inclemente, che vive un presente incerto e non riesce a spingere lo sguardo verso il futuro. Coloro che spesso vengono, cristianamente, definiti “gli ultimi”, nella convinzione che in un mondo più giusto “saranno i primi”. Una definizione che non faccio mia, una parola che presuppone una corsa, una competizione verso obiettivi futili e frustranti. Mi vengono in mente a questo proposito le parole di Christian Tito: “L’unica carriera che mi interessa è quella umana”. E l’umanità vera è proprio quella che sa riconoscere il valore di coloro che in genere sono considerati “vinti” posando su di essi un occhio attento che ne spia i dettagli, che li chiama per nome – qui Alì, Massi, Stefano, Cristina, Claudio – che dona dignità di racconto alla loro storia, perché ogni vita è inestimabile e merita di essere raccontata. Anche quella di Alì che impara l’italiano leggendo necrologi, quella dei ragazzi di strada, dei ragazzi di vita, di chi ruba per campare, di chi per vivere vende i capelli e il latte materno. Queste persone sono compagne del poeta, che non nega empatia e tenerezza neppure a una figura paterna violenta. E da qui si arriva all’altra accezione della pietà, nell’idea che tutto sia sacro, nella dolcezza infinita dei versi scabri che chiamano ogni cosa con il suo nome, crudamente, senza voltare lo sguardo davanti a nulla o a nessuno, senza censure, senza eufemismi. Con un grande amore per la bellezza, per l’arte che porta il poeta a dire, presentando sé stesso e uno dei suoi libri, “Posso vivere un giorno senza pane, ma non posso stare senza bellezza”. In questa commedia umana abbozzata che si compone via via in tutta la produzione del poeta riconosciamo un anelito verso un oltre, un ideale, a cui tendere magari tornando a saltare come bambini sul letto grande, un ideale che va oltre il silenzio di dio. E in taluni versi si ritrova una tensione tra due poli opposti, tra la cruda materialità e la spiritualità: “Le mani tese verso un oltre / che non posso guardarlo negli occhi / ferita longitudinale è la mia bocca / che succhia assi marcite, il vuoto incorniciato.” Versi come questi ci riportano a un altro autore amato da Bologna in Lettere, Massimiliano Chiamenti, con il quale Marià ha in comune l’aspirazione ad andare al di là dei conti con sé stesso per farsi ponte verso l’altro, e la crudezza nella resa di una realtà che in genere si preferisce tacere, di cui ci si vergogna, dalla quale sbocciano, come i fiori dal letame, una straordinaria bellezza poetica, una profonda tenerezza. (Francesca Del Moro)