RITA GRECO ci presenta alcuni testi tratti da La gioia delle incompiute (Ladolfi editore, 2021) e chiude con la lettura di alcuni inediti. Ad accomunare queste poesie è il dettato fermo, asciutto, solido, estremamente maturo. Verrebbe da dire ‘compiuto’, in contraddizione con il titolo scelto per la silloge. Un titolo il cui femminile plurale sembra alludere, più che a una generale condizione femminile (oppure un riferimento all’umanità tutta, declinato al genere da sempre messo in secondo piano dalla grammatica) alle parole stesse, alle poesie. La loro incompiutezza è specchio della condizione umana, che qui viene osservata sotto la lente, per riprendere un’espressione della prefazione di Alfonso Guida, di un lumen/limen, una soglia che è anche fonte da cui proviene la luce, davanzale dal quale tendersi verso l’aria aperta, verso il sole, verso un altrove. La soglia (definita soglia d’aria in uno degli inediti) è il filo teso tra un mondo e un altro, su cui camminiamo come equilibriste, sempre a rischio di cadere, sempre assediate dal dubbio, il dubbio che spesso ci zittisce, e in lotta con le nostre contraddizioni (è perché io più di tutto sono contraddizione sono i versi che chiudono la raccolta). La condizione di incompiutezza si avverte a partire dalla coscienza della propria piccolezza / inadeguatezza ma è anche connaturata allo stato di superstite (superstiti indecisi se vivere sia ancora un miracolo / o una punizione; strambo sopravvissuto dove te ne vai?), è legata alla ferita, alla perdita che ognuno di noi si porta dietro, al fatto di sentirsi un giocattolo rotto. Forse di tratta di un’illusione e del resto anche fare poesia lo è: Ma lasciatemi l’illusione / che a qualcosa serva / mettere insieme questi suoni sgangherati si legge nell’epitaffio. Un’illusione che sembra diventare reale nel dormiveglia, quando ci si trova appunto sulla soglia tra la veglia e il sonno e si ha modo di intravedere altri mondi, altre possibilità, superando i confini posti dallo spazio e soprattutto dal tempo. Ed è questo l’altro grande tema della silloge: una tensione, non imperativa ma delicata, gentile, affettiva, verso l’assoluto, la fusione con tutte le cose, l’eternità, l’infinità di cui si cerca di appropriarsi portandola a misura. Negli inediti, questo anelito prende la forma degli angeli che vengono a sollevarci le ali, a donare la lettera mancante, ancora una volta, alla nostra lingua incompiuta. I versi vivono qui della tensione dialettica tra la coscienza del proprio disordine, del proprio essere frammentati, e il desiderio di unità, non solo in sé, ma con il tutto, che si esprime perfettamente nei versi ossimorici: cadi a pezzi / compiuta / in ogni scheggia / l’intero. Lo sguardo è rivolto alla luce che filtra dalla crepa, per dirla con Leonard Cohen in Anthem (Forget your perfect offering. There is a crack in everything. That’s how the light gets in.) C’è una crepa in ogni cosa ed è così che entra la luce. Una luce portatrice di gioia, come sottolinea il titolo della raccolta. (Francesca Del Moro)