Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione C (Poesie singole inedite)
Nota critica su Luca Gamberini Tre inediti
Rime di frattura e dismorfie tattili nella poesia di
Luca Gamberini
La tensione poetica di Luca Gamberini da qualunque punto si origini, non sta mai ferma, percorre in una folgorazione tutte le strade del senso, arricchendosi delle più varie implicazioni d’umanità. Si incide nella pura figuratività degli oggetti, apparentemente neutri, trasformandoli in correlativi di una tragicità silenziosa che collega e fonde i contrari tra loro. Il trittico di Gamberini è straordinario: ci presenta infatti un’immagine della realtà quasi metamorfica e lo fa raccontando, contaminando, illuminando la desolazione di chi la osserva, attraverso schegge di piani sequenza, sospensioni forzose dell’animo, audaci deformazioni visive: “Non rime di frattura/ attualmente, apprezzabili/ distorsioni/ dismorfie tattili – fa male?”. Gamberini disinnesca i fotogrammi del reale e li chiude in una sorta di straniato disagio, mostrando una visione testuale che sa metabolizzare anche quelle che si considerano le proprie scorie, traendone una condensazione emotiva ambiguamente indicibile dove non sia possibile “nessuna rima in questo atrio.” Questa rappresentazione di una realtà in frantumi –”Ho solo fratturato delle speranze.” – trova espressione attraverso versi assemblati in modo asintattico, per dare forma a linee di forza imprigionate in correnti sottili e invisibili. È infatti la contaminazione tra “rime di frattura” e “dismorfie tattili”, in un tragico gioco di analogie lessicali con l’impoetico registro linguistico radiologico, il fiume carsico che attraversa la poesia di Gamberini, incastrata formalmente in strofe di versi imperfetti, ma in realtà inquietanti, come sottesi da una sorta di extrasistole semantica, un segno tra i più intensi di una volontà insieme irruenta e ansiosa, di comunicare con il lettore. Il fare poesia è un’azione, un atto che incide sul reale, non è più qualcosa di ineffabile e astratto, ma punta tutto sul dire e sul fare concreto: “Dalla mia carrozzina non giudico/non ho elementi assiso su questo trono/mobile, immobile.” Lo spazio precedente scompare e il motivo dello scomparire dalla scena non si spiega. La precisione geografica, manifestata da Gamberini all’inizio, viene ora spezzata. Si spezza il realismo della rappresentazione per far entrare in quello stesso spazio un corpo metaforico che pesa, quello dell’autore. Corriamo un altro, diverso e simmetrico pericolo ora, affondare in “questo stallo di mosche. Una mischia.”, nella luce crepuscolare di un tempo galleggiante e ombroso, in cui “i giorni di febbraio limano l’inverno,/raschiano i pensieri, rischiando il chiarore/di un sole sleale”. Tra questa staticità orrenda e il suo vuoto dinamico, si crea dunque una differenza di potenziale che produce un incessante passaggio di energia poetica. È la forza figurale che si condensa, con un’evidente tendenza all’oggettivazione realistica, sublimata in un accordo quasi biologico di conservazione di fronte alla sua potenziale dispersione: “Ammiro questo calendario caleidoscopio/ e mi chiedo schietto dentro quale sciame/ stiano i danni.” Il reale è ora una sensazione che il lettore avverte direttamente sulla propria pelle, lo spazio letterario ci affida infatti una visione dello spazio fisico: riconoscere un presente in cui “la mia fragilità mi reclama umano.” Versi, questi, che lasciano in eredità una sensazione amara ma necessaria, in un continuum affannato che ha “la disadorna grazia della cera in chiesa”, nell’ultima malinconica creazione visiva: attraversata da “arti piegati, come steli di rosa – candida, /genuflessione, redenzione, penitenza”, la parola rischia di sovraffollare l’ascolto, aggiungendosi passivamente, quasi inutile accessorio. L’incompatibilità dell’instabile quiete di Gamberini è quindi esemplare, necessaria, perché esprime la volontà di trovare nell’uomo un centro che si faccia nucleo di resistenza poetica attraverso la quale “sradicare questo mare di male/che avviluppa, strappa, contorce:/ma credo, non cedo, apprendo.” Una griglia, una ragnatela, un campo magnetico vitalizzato in cui, in definitiva, si perda la cronaca frammentaria del mondo. (Antonella Pierangeli)