Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione A (Opere Edite)
Nota su Lello Voce
Razos
La Nave di Teseo Edizioni
Foto di Dino Ignani
Rendere ragione della parola poetica attraverso un puro atto estetico: detta così, sembra cosa facile, persino un’ovvietà praticabile tramite un semplice percorso razionale di tipo espositivo. In fondo, la pratica della razo è cosa antica, già medievale, e consiste precisamente nella spiegazione, scritta in prosa, di un testo poetico, apertura ermeneutica in forma di ragionamento introduttivo che il trovatore, nell’ambito della letteratura occitanica, offriva al lettore per esplicitare del testo non altro che le proprie ragioni; oppure, con l’intenzione manifesta di mostrare le circostanze o, ancora più banalmente, la semplice occasione della scrittura. La storia vuole che non sempre le razos fossero scritte dallo stesso autore del testo poetico. Soprattutto, la regola principale era una e una sola: la razo doveva introdurre, prefare o comunque accompagnare il testo poetico di cui si poneva come, per l’appunto, introduzione, prefazione o accompagnamento esplicativo. Rappresentava l’ostensione, assolutamente prescindibile, del testo di cui risultava pendant, in forma di una vera e propria volizione critica o autocritica.
In Lello Voce, al contrario, le razos sono ragioni di testi che, puntualmente, nell’immediato non ci sono, sono rimandati ad altro e ad altrove, dislocati alla fine, resi autonomi dalla propria introduzione la quale, perciò, assume valore autonomo di natura insieme letteraria e filosofica. Ed ecco che si capisce la difficoltà radicata nella chose: Lello Voce intende rendere ragione della parola poetica attraverso un puro atto estetico di natura metaletteraria, che è, contemporaneamente, un procedimento matematico, anzi, di assoluta mathesis, ovverossia di conoscenza non intellettuale, bensì intuitiva, sensazionale, analogistica.
Paradossalmente proprio in quanto tali, le razos assumono piena autonomia ermeneutica e teoretica, si staccano dal textus di riferimento come una membrana de-composta, come la pelle di una muta, anzi, precisamente di diciassette madrigali muti. Ma così facendo, rendendosi autonome e scisse dalla loro tradizionale funzione d’uso, tali razos si assumono l’onere di dare voce e corpo all’enciclopedico caleidoscopio prospettico dell’esigenza primaria del poetare. La razo diviene senz’altro poesia, facitura dicibile del basamento indicibile del mondo, che in se est et per se concipitur.
Non c’è bisogno di andare a capo, perché la prosa completa del mondo come atto de-scrittivo, come metalogico dialogo con il lettore, cambia di segno l’intero percorso dell’affabulazione e dell’originario impianto ragionativo assume la forma e la sostanza dell’abduzione, del discorso solo probabile che, proprio in quanto tale, non ricade nel campo della certezza, bensì apre le porte all’incontro con il sostrato misteriosofico dell’osservazione del mondo stesso, se il mondo è qualcosa che può essere esperito solamente in quanto può essere detto, come avviene, precipuamente, con la poesia; e proseguendo via via così, a circolo virtuoso.
Allora, i diciassette madrigali muti che seguono le razos all’interno del volume saranno muti perché privi ognuno della propria razo dislocata in altro e altrove, in quanto avvolti dall’essenza stocastica dell’esteticità del dire poetico. Sono, quindi, a ben vedere, privi di razos. E sono privi di razos in quanto privi di ragioni; e privi di ragioni in quanto irragionevoli; e irragionevoli in quanto dettati e marcati dall’orma indecidibile di un puro atto estetico, privo affatto di ragion pura, per dirla con Kant, che si è impresso sulla natura fondante del dire analogico che fa razo e, quindi, rende ragione autotelicamente di sé stesso, in un procedimento, come si diceva, a circolo virtuoso.
Esattamente così la poesia deve essere nel geniale esperimento vociano, in cui l’istanza comunicativa sottesa a qualsivoglia agire poetico si capovolge in un percorso borgesiano che lavora per sottrazione, quello in cui, quando la poesia c’è, non se ne può rendere ragione, e quando la razo c’è, essa è, tout court, poesia senz’ulteriore determinazione che l’assoluto contraccolpo in sé stessa, per dirla, stavolta, con Hegel.
Insomma, forzando un poco la mano al Dante della Commedia, anch’egli pratico di razos come si vede dal manuale poetologico della Vita Nuova, potremmo suggerire che versificar significar per verba non si poria, se c’è già la razo a farsi mirabile atto concrezionale di poesia, anzi, a farsi segno metageometrico di poesia. Come nell’eptadecagono di Gauss, costruibile con riga e compasso attraverso un procedimento riproducibile per poligoni dello stesso numero di lati corrispondenti ai primi cinque numeri di Fermat, la poesia e la prosa si costruiscono vicendevolmente generando una forma altra, molto simile, per il gran numero di lati conseguenti alla costruzione geometrica, a un cerchio un po’ alla Cusano, con il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; che era, poi, la definizione cusaniana della macchina del mondo, cioè di Dio. Un cerchio che però, in Lello Voce, non è un vero e proprio cerchio, bensì un poligono di diciassette lati che solamente gli somiglia, un eptadecagono di Gauss: la dimensione poliprospettica del senso stesso dell’assenza di senso, che è alla base della festosa forza comunicativa della parola poetica, si rende adesso manifesta nell’impianto misteriosofico di questo libro che ho già detto, poc’anzi, borgesiano, e che, di più, è composto dalla miriade di sensi e sottosensi riposti nell’indicibile.
Come sempre la poesia deve fare, si rompe in questo libro qualsiasi cliché formale perché si frantuma “l’ovvio della non ovvia condizione dell’ovvio”: che è, poi, ciò che qui fa la poesia ma è essenzialmente, secondo il grande filosofo estetico Emilio Garroni, prerogativa indiscussa di quel gran gioco delle perle di vetro che è la filosofia. (Sonia Caporossi)
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