Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione A (Opere edite)
Nota critica su Giorgiomaria Cornelio
La specie storta (Edizioni Tlon)
La specie storta di Giorgiomaria Cornelio non è da considerarsi una mera raccolta di testi, bensì una proteiforme traccia mnestica incarnata, che testimonia ed eterna il rito omonimo (cristallizzato nella Memoria di Luce fotografica, opera di Chiara Bruschini, che suggella il volume), officiato per la festa della poesia “I Fumi della Fornace”, in Valle Cascia.
Nel suo insieme, il corpus dell’opera si manifesta per epifanie successive, attraverso il susseguirsi di movimenti ontologici tra loro distinti eppure insolubilmente interconnessi su vari livelli di significanza.
La prima sezione, Favole dal secondo diluvio, ostende la propria forma brevis (tratto peculiare del genere favolistico classico) sotto il segno della commistione, giacché la diegesi viene condotta in parallelo da due voci che, dispiegandosi, si compenetrano armoniosamente per via di innesti reciproci: alla voce di Cornelio, ipostatizzata nel verbum di prose poetiche dalla vertiginosa carica visionaria, s’intreccia inestricabilmente la voce di Giuditta Chiaraluce, che prende a sua volta corpo per imaginem, strutturandosi in evocative partiture visive. Un suadente duetto, questo, che (re)interpreta, con efficace sinergia, uno dei principi archetipali più possenti e interculturalmente pervasivi di ogni epoca: il tema del diluvio, la cui genesi risale al III millennio, con la breve menzione nella Lista Reale Sumerica, e che si snoda, poi, nel tempo, attraversando il poema di Atra-Hasis, l’epopea di Gilgamesh, l’Antico Testamento e la mitografia greco-romana di Apollodoro e Ovidio, solo per citare le tappe più significative. Tuttavia, già dall’incipit si evince come l’intento ultimo di Favole dal Diluvio sia quello di evocare l’archetipo per sovvertirne la natura: «Il nubifragio ha voluto piantare l’albero sottosopra». La potenza visiva dell’albero capovolto, che fulmineamente rimanda alla tradizione cabalistica (e in seguito ermetico-cristiana) dell’ilana dehayei delle Sĕfirōt, comprova il fatto che quello cantato da Cornelio e Chiaraluce sia da considerarsi un esperimento fallito di estinzione, ovvero, come Elena Frontaloni, nel suo prolusivo Comiciamento, non manca di rilevare «un diluvio sostanzialmente mancato», che abdica alla propria atavica funzione palingenetica per lasciare dietro di sé una tabula non più rasa bensì picta, grottescamente istoriata da una vita segnata dallo stravolgimento. Il noi sopravvissuto al nubifragio raggruma, infatti, un’ecumenicità indefinita e dolente, sopravvissuta giocoforza al fallimento del lavacro lustrale («Avrebbe dovuto lavare via tutto. / Ma per favore, non discorriamone mai più.»), che demanda al fuoco l’annichilimento catartico mancato («noi costruiremo una fornace, affinché tutto sia fatto per bruciare»).
E, al pari di faville, ignifori lacerti concettuali si dipartono dal rogo delle Favole per attecchire e divampare in tutta l’opera.
Ne La specie storta, ad esempio, dopo la centratura dell’io operata dal Preludio («Sono la mala untura, la sciagura, la pece che non rassomiglia»), torna a riecheggiare, nei rimanenti testi, la coralità di un noi narrante ed esortativo, che si propaga nell’aura poetica di prose onironautiche («Ci hanno lasciato ciottoli di resa»; «Via… usciamo dal centro della sete»), come protoplasma interconnettivo nel tessuto miceliare, il cui intreccio di ife imbozzola, a guisa di pacciamatura organica, l’arca del Viaggio che veleggia – in sospensione liminale tra Odissea e Argonautiche – alla volta dell’Isola del Fosco Granaio: («La nostra arca è fatta di micelio»). Torna anche l’assalto delle acque, questa volta disposte in assetto orizzontale, in forma di assedio («Ora c’è solo il mare, il mare attorno. Ci allaga un carico di devastazione»); e torna la sovversività lustrale del fuoco, prefigurata in nuce dalla bioluminescenza dei coleotteri, il cui avvento messianico da mero auspicio si fa mantra soterico: («Prega ogni giorno che basti / una lucciola per dar fuoco al mondo»).
Il fuoco, antitetico portato della frustrata exstinctio per aquam, alligna anche nella terza sezione dell’opera, Le fondamenta di Sodoma («perché il bruciamento appartiene a un sogno diluviale»). Qui, però, l’ubiquità delle fiamme palingenetiche trasmuta nell’asfittico perimetro di un rogo espiatorio, che si stringe implacabile attorno all’indomito rifiuto dell’abiura professato da un io anti-lirico («Pietà. Pietà. / Non abbiatene. / Siate fermi nella condanna. / Bruciate- / mi»), cristificato nel martirio dell’alterità irredenta, della stortura irrimediabile («Non c’è correttura che / rivolti all’indietro, siero o leva / per il nato di contro»), preannunciata sin dalla sezione eponima del volume, dove si staglia immota, scolpita nella chiusa gnomica del Preludio («Sta scritto: ciò che è storto non può essere raddrizzato»). Alternandosi a tratti a un redivivo noi omericamente consociato nel dolore, l’excrucior del «nato di contro» espone e rivendica la marchiatura ancestrale («Vi dico: svasate la giustizia in parti / dispari. Dateci la tagliola dolorosa, l’offesa alla razza che è solo nostra / nostra sola»), invoca «la postura della valanga» e precipita la stortura nei versi di questa partizione (unica, nell’opera, ad assumere anche le fattezze formali del testo poetico). Il verso si storce e si contorce, si spezza e si tende a dismisura, trafitto da negazioni anaforiche, sovvertito da avversative incalzanti, obnubilato da interrogative vibranti e stringenti, scagliato in una vorticosa catabasi che dell’ascesi è l’imago speculare, «l’arrovescio»; e in essa, non meno che nella trasumanazione, può consistere il quantum della salvazione: «Allora / le doglie scavalcheranno / il concepimento. / Allora resteremo abbandonati. / E per questo / salvi». (Maria Laura Valente)
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