Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione A (Opere edite)
Nota critica su Paola Turroni
Nel volto delle bestie (Effigie)
La parola poetica di Paola Turroni non si abita con la tetragonia stanziale dei paesaggi urbani ma si attraversa, assecondando la fluida impermanenza di un dettato vibratile e metamorfico; in essa ci si aggira con la cautela delle selve – passo lento, sensi all’erta – sull’usta di una proteiforme e inquieta fauna antropica, implacabilmente braccata nel perimetro deflagrato di un’insidiosa giungla urbica: «La città è una foresta di risacca / senza traccia senza / tana». Esplorandone i meandri, ci si smarrisce in un gioco di specchi lacaniani, in cui la realtà umana trasmuta ineluttabilmente in immagine belluina, totemica o nemesica che sia. L’uomo, il nietzschiano «animale non ancora stabilizzato», torna al punto di partenza e, deponendo l’una dopo l’altra vestigia umane e conquiste evolutive, rinuncia all’ambita stabilizzazione e, con essa, all’evasione dal serraglio.
E così «ci si assume il peso delle bestie», di tutte le bestie e di ciascuna, intese tanto nella loro ferina coralità parcellizzata, quanto nella propria irripetibile individualità, mentre il confine tra natura e cultura si nullifica nella propagazione ascensionale di un urlo scarnificato ed ecumenico, la cui potenza liberatoria assomma in sé tutte e sei le gradazioni, acusticamente ed emotivamente distinte, della categorizzazione di Sascha Früholz. De profundis, nei versi di Turroni «l’urlo della bestia / è salito fin sopra il monte / ha stroncato l’attesa ha rifatto la strada / ha rimesso gli odori sul fuoco / ha pianto / ha insinuato / ha fatto l’eco alle stelle spente / il mio urlo tutto». Attorno a questo nucleo di possente vocalizzazione non-verbale, l’autrice edifica, a fini diegetici ed ermeneutici, un’incastellatura lessicale, morfo-sintattica e retorica volta a sgretolare definitivamente le macerie del discrimine tra sentire umano e animale. Segnatamente sul fronte della compagine lessicale, Turroni dà forma, con topiaria maestria, a un’ibridazione di regni, attraverso l’impiego di un campionario di fera verba che, innestate nella carne viva del corpo umano (ma, talora, viceversa), evocano e cristallizzano la natura liminale di un’umanità ferinizzata, costantemente colta nell’atto dinamico della trasfigurazione. Particolarmente significativi, in tal senso, alcuni passaggi, enucleati dalle varie sezioni che scandiscono l’opera: «la zanna ti ricresce nella bocca»; «ci si sbatte a riva / il pescato del giorno / si riluce / come schegge spente nell’acqua»; «ricominciamo – la caccia / brutali e leggeri, come solo la fame»; «guardarsi da lontano / riconoscersi dal ghigno»; «anche le bestie bevono vino / restano immobili, tengono in gola / il ringhio»; «dall’ultima volta che sono nata / la libellula sta – tra l’occhio e la fronte». È la muta della pelle, l’abbandono inevitabile di un esoscheletro puramente umano, che si rivela ormai disfunzionale ai fini dell’esistere; si assume, dunque, come inevitabile portato, che il quotidiano impatto con la vita sia da fronteggiarsi nel più autentico e aurorale degli assetti, ovvero privi di armature psico-emotive e di sovrastrutture, al pari dei più elementari elementi naturali: «Si torna nudi, in piedi al vento come erba». Ciò rende ineluttabile l’attraversamento consapevole e non schermato del dolore, il rifiuto di una comfort zone concessa in temporaneo subaffitto dall’ottundimento e dalla narcosi, in favore di una più autentica accettazione della natura scomoda e precaria dell’esistenza, che implica uno sforzo inesausto e sovente inane: «Stare nel dolore come seduta sulla punta di una sedia / tenerlo schiacciato / sotto il bastone, il costato / è un buco in cui entra tutto / un vulcano al contrario». L’esposizione assurge, nei versi di Turroni, a vessillo del sentire, ci si vota a un aperto «ch’è si profondo», come attesta l’Ottava elegia di Rilke che inaugura il primo dei quattro esergo (gli altri sono tratti, nell’ordine, dalle Città invisibili di Italo Calvino, da San Pietroburgo e l’oscurità soave di Elena Švarc e da Antimondi di Andrej Voznesenskij), sotto la cui egida si snodano le serpentine partizioni di Nel volto delle bestie. Non c’è più alcuna barriera, dunque, che dissimuli l’excrucior; l’ostensione dell’aperto è totale, solenne e genuina al contempo: «Si è aperto lo sterno – adesso è tutto spalancato / dondola aperto sotto il cielo grigio / l’ossatura della furia»; e ancora «tra le braccia e il cuore, nell’occhio serrato / una lunga ferita d’acciaio che non ha più sapore». Le ferite dell’animo si aprono come quelle della carne, e al pari di queste si curano, ferinamente, in silenziosa solitudine, con paziente dedizione e col sale degli umori: «Levare il sangue, leccare / nella giusta direzione / governare la formazione della crosta». Di ferite, spesso, si muore («l’iguana ha soffiato / spalancando le fauci sul vuoto / ha fatto buio / e siamo morti tutti») e, sovente, non una sola volta («Io lo so che morirò ancora»), giacché, ciclicamente, a ogni morte fa seguito una rinascita, la cui cifra palingenetica sta tutta nella topografia delle cicatrici, nella sua mappatura in perenne divenire. L’identificazione con la bestia implica, inoltre, per l’umano l’abdicazione allo zòon politikón aristotelico e, ipso facto, l’elezione di una solitudine che si fa chiave di volta di una rinnovata e ritrovata edificazione esistenziale: «forse non si resta lupi a lungo / forse lo si resta ma da soli». Eppure, anche questa solitudine è aperta, spalancata; in essa, prende dimora la dimensione comunitaria femminile, la sorellanza primigenia e panica che richiama e unisce, sia pur da remoto, le sue adepte, nel quartultimo componimento della terza sezione: «Si svegliano tutte le femmine / attorno al mio lago stanno tutte». Ed è proprio nella cifra soterica di questa muliebre affiliazione, dell’interconnessione e longiquo di quello che Tiziana Cera Rosco, nel suo saggio in explicit definisce «il rosario dell’animale femmina» che la poetica turroniana raggiunge il proprio acme, perfettamente stigmatizzato, nella chiusa del componimento citato, in un verso che contrappone a una triade aggettivale allitterante, in mirabile equilibrio asindetico tra tricolon e climax, il sigillo lapidario di un quarto aggettivo che campeggia in algido e imperituro isolamento: «ferme fiere feroci – sole». (Maria Laura Valente)