Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione B ( Raccolte inedite)
Nota critica su Massimiliano Cappello
Per parte lesa
Una delle sfide della scrittura contemporanea riguarda la possibilità di intendere il discorso poetico come atto tetico, affermante, messa in crisi dallo spazio sempre più ristretto che il lavoro intellettuale occupa nella collettività, dalla memetica, dall’assenza di agency, dal postmoderno e da altre mille concause. Con per parte lesa – che porta una ferita già nel titolo – Massimiliano Capello imbocca perciò una strada auto-sabotante, dove il tentativo di fabbricare un messaggio che sia tale viene osteggiato da movimenti che al contrario disgregano, disilludono.
Del “discorso forte” per parte lesa ha l’andamento, il registro e la postura. Ciò che subito si nota leggendo l’opera è del resto la forma dei testi: estesi, in versi larghi e spostati sulla pagina, ricchi di parentesi e di punteggiatura di raccordo (in primis virgola e punto e virgola, a volte anche il doppio punto in chiusura, che aggancia due testi contigui). Nonostante la divisione (e numerazione) delle sue parti, quindi, per parte lesa sembra proporsi come unità, almeno formale, di cui i singoli brani sono stadi o passaggi. Quanto invece al registro, osserviamo una tendenza innalzante abbastanza esplicita: dai frammenti in latino e tedesco («de te fabula narratur», «schadenfreude») ai riferimenti colti («helvétius, dante & marx»), dai neologismi («fuoristagionalità») al lessico settoriale («specimen»). Infine la postura è quella di un soggetto che si esprime, evidenziando spesso la prima persona singolare o plurale, sottolineando una condizione («siamo noi in persona»), rifiutando la costruzione di una sceneggiatura e procedendo, semmai, con immagini a supporto della tesi.
Contro il supporto, però, la demistificazione. Nel 2023 il discorso tetico in poesia quasi non è possibile senza risultare artefatto e perciò, per autenticarsi, deve ricorrere paradossalmente a espedienti demitizzanti, come l’autoironia, l’allegoria vuota, l’autosabotaggio, la sindrome dell’impostore. Cappello li attraversa tutti e quattro: accanto alle tessere dotte troviamo quelle pop (come quel «sembra di stare a lascaux, o a thoiry», con prestito da Achille Lauro); continuamente compaiono misteriosi animali («gufo», «orso», «merlo») più simili ad allucinazioni che a simboli decifrabili; tra un testo e l’altro se ne trova sempre uno dal titolo 0. insert coin, che spezza la numerazione e, come nei videogiochi, fa ricominciare la partita; il soggetto si concentra su di sé («(sembra che sia parlando di poesia ma è pura osservazione / di me stesso):») ma costantemente si mostra sfaldato, aggredito, impossibilitato («il problema nel rifiuto del gesto, nella decisione non revocabile, / in qualsiasi scelta di ordine etico»).
Questi ultimi due punti, in particolare, sono significativi. La partita che, come nei cabinati, puntualmente ricomincia, oltre che riferimento pop a sua volta, è il segno di un discorso che si interrompe; ma è anche quello della difficoltà di raggiungere il livello superiore, nonché – punto più importante – del poterlo raggiungere solo attraverso la moneta. E cioè attraverso un valore che non è intrinseco all’opera ma viene dall’esterno. Questo aspetto più di tutto dimostra che la condizione fustigata ed emarginata della voce che dice io, che riconoscendosi emarginata si fa veicolo di un segreto e anche, suo malgrado, portavoce di una condizione collettiva negativa, è, sì, eredità romantica, ma anche suo superamento nello spingersi all’interno di una contraddizione (quella tra impellenza della denuncia e sfiducia nella sua possibilità di incidere) pienamente contemporanea.
La domanda da fare a per parte lesa riguarda infatti la qualità della lesione che porta nel titolo. Domanda a cui il libro, coerentemente, risponde solo in parte: l’inghippo del sentirsi in qualche modo spinti a dire nonostante la consapevolezza dell’inutilità del dire («vorrei davvero non dover parlare») attraversa verticalmente l’opera, ma qualcosa si scuce in singoli passaggi oppure se si osserva in controluce la struttura. Che la lesione sia di marca storica, quindi collettiva, si intuisce ogni volta che il soggetto si mostra funzionalizzato ad antenna di un dolore o di una sconfitta più larga del proprio corpo («io sono la polizia della storia, l’obsoleta incantatrice del mondo / io sono ofelia nel lambro o nel seveso emergente / sono la confluenza delle vostre preghiere inesaudite»), ma soprattutto dall’insert coin: l’impossibilità della denuncia diretta si incrocia con un’eterodeterminazione del valore, e la poesia può compiersi solo spostando il proprio centro altrove, in un altrove alluso ma mai mistificato, spettrale. Non a caso il verbo “valere” compare negli ultimi versi: «ma dimmi allora / quale evento per noi valga quanto siamo in vita / quando in morte. inerti.» L’inerzia di una «voce che una volta parla ma / mostrificata» è l’appendice poetica (spoetata) dell’incapacità di definire il valore degli eventi. (Antonio Francesco Perozzi)