Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione A (Opere edite)
Nota critica su Riccardo Innocenti
Lacrime di Babirussa (NEM)
Riflettevo nelle ultime settimane sulla rappresentazione del soggetto maschile che viene fuori nei libri scritti da uomini; non si tratta solo della rappresentazione di sé come soggetto sessuale, desiderante o meno, ma proprio sull’immagine di sé e del mondo che traspare dalle scritture maschili, e che meriterebbe senza dubbio un approfondimento (è ancora elemento di discussione se esista uno specifico maschile/femminile, ma diciamo brevemente che io credo che esista). Ho l’impressione che manchi una rappresentazione di sé come soggetto sessuato-desiderante, e non è solo una questione tematica ma, come nel caso del libro d’esordio di Riccardo Innocenti, Lacrime di babirussa, edito dalla meritoria Nim, di una riflessione profonda sulla propria identità maschile e quindi sulla propria relazione col mondo. Non poca cosa quindi; è che per compiere l’operazione di cui sopra occorre probabilmente una capacità di mettersi in gioco e di decostruirsi senza troppi patemi che si incontrano raramente sulla scena poetica. A questo possiamo aggiungere, da parte di Innocenti, un ottimo controllo formale e la capacità di porre sul tappeto i conflitti in modo controllato ma sapiente: una capacità evidente soprattutto nelle prose del libro che, come afferma Jessy Simonini nella prefazione, hanno quasi sempre un evidente sapore programmatico. Qual è dunque la posizione del soggetto? La sua posizione è quella di un maschio bianco eterosessuale cresciuto a pane e schermi (evidente qui il magistero di Guido Mazzoni) che consapevolmente decide di analizzare pezzo per pezzo le radici della violenza maschile. Quando parliamo di violenza maschile parliamo di qualcosa che fa parte sia della cronaca che della quotidianità; qualcosa che intride profondamente i rapporti tra i sessi in termini di potere. Esiste, dice Zoja citato da Simonini, un “residuo animale del maschio” che rende i rapporti tra i sessi – a livello profondo – qualcosa di simile a un combattimento per la sopravvivenza o per il potere. Innocenti parte da qui per il suo lavoro interno di riposizionamento come maschio; parte cioè dalla domanda: Può la mia identità di maschio essere qualcos’altro da ciò che tradizionalmente è?, ma soprattutto: “Questa violenza che pure è presente in me, nonostante i libri letti, cosa devo farne? La posso accogliere e trasformare oppure la devo eliminare e basta? E perché eliminarla poi, se sento che è comunque parte di me?”. Le tappe di questa disamina passano per la visione di documentari cruenti sul mondo animale in cui l’io poetico si rende conto che la violenza fa parte integrante della vita naturale all’uccisione di un maiale a considerazioni varie sul rapporto tra uomo e animale (la vita animale è spesso evocata a ricordarci in cosa consista la vita senza gli strati consueti di civiltà e buongusto) a scene di ordinaria sessualità maschile in cui l’uomo cerca di fare sesso senza preservativo o sostituisce una vecchia fidanzata con una fidanzata più giovane. Accanto alle immagini del mondo animale sono assai frequenti quelle di macchine, che mi hanno subito richiamato alla mente le macchine celibi di Duchamps e la paura che mi hanno sempre ispirato; una suggestione probabilmente confermata dalla poesia Ecfrasi (Can’t help myself), ispirata all’opera di Sun Yuan e Peng Yu in cui c’è appunto un robot che schizza del finto sangue su un vetro. Il sangue è finto ma “non si riesce a smettere di fissarla / per quanto ferisca”, “è bello / questo robot malato che fa male / e ti incolla: una spogliarellista /che raccatta i soldi a fine serata” (ancora gli schermi, ancora il confine fin troppo labile tra la realtà e il suo simulacro). Nella prosa intitolata Perchie di mare, il tema è ancora la natura della violenza: in sogno l’io poetico “ogni notte massacra migliaia di antagonisti con il kalashnikov”. Nello stesso testo troviamo anche il tema della forza/la debolezza della forza vitale, perché l’io narrante assiste alla morte di una perchia che lui stesso ha ferito; vorrebbe che lottasse per la vita, ma l’animale si arrende alla morte, ed è in quel preciso istante che la morte si trasforma per il soggetto da morte fittizia, a cui assistere come dietro uno schermo, a morte reale (situazione che mi ha ricordato moltissimo il brevissimo racconto di Primo Levi Forza maggiore: anche lì, il soggetto deve decidere se reagire o meno con la forza in una situazione in cui rischia di soccombere alla violenza). Qui però la violenza è spesso finta, o simulata; sono le lacrime del maiale a trasformarla in una minaccia reale, e quindi in vita reale, e quindi in poesia che si muove, che si agita sotto di noi reclamando la sua vita. (Marilena Renda)