Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione B ( Raccolte inedite)
Nota critica su Mauro Barbetti
Poligrafiche di stati
Dichiarate già a partire da un titolo declinato al plurale, e rese ulteriormente esplicite nel sottotitolo (Poiché ognuno ha in sé più di una sola storia, più di un solo linguaggio, più di una sola possibilità di scrittura), molteplicità e poliedricità espressiva costituiscono le cifre salienti della ricerca condotta in Poligrafiche di stati di Mauro Barbetti. Nella prima delle cinque sezioni che compongono la raccolta, tutte titolate in maiuscolo, l’intento programmatico di offrire una raffigurazione asettica e dettagliata dell’Uomo della contemporaneità (il titolo di questa sezione è TAVOLE ANATOMICHE PER POSTUMANI) appare subitamente minacciato dall’incertezza o, meglio, da una pluralità di incertezze e prima fra tutte da quella che concerne la stessa possibilità di affermare in modo univoco cosa vuol dire essere umani, che cos’è un umano e se esiste davvero qualcosa del genere. La breve citazione che introduce questa sezione è tratta dal sesto punto del Manifesto del Post-umano di Robert Pepperell, il documento che sintetizza le tesi più diffuse della prospettiva filosofica postumanista, e che ripensa la natura stessa degli esseri umani in relazione all’ambiente contemporaneo, così tanto mutato dai progressi dell’informatica e della biotecnologia, secondo una visione ibridativa che, per esempio, porta a riflettere sul superamento dei limiti sensoriali, e in generale della corporeità, a favore di supporti artificiali più efficienti e propri di quella che appare profilarsi come una nuova specie. Nel lavoro di Barbetti, in particolare, il richiamo all’incertezza come elemento ormai familiare e caratterizzante il nostro tempo funziona come un’avvertenza e orienta la lettura (a mio avviso non solo limitatamente agli otto testi della sezione) in termini non lineari, non assiomatici, e certamente non rassicuranti, persino o forse a maggior ragione quando il richiamo alla filosofia di Protagora o più semplicemente alle fiabe o alla stessa Storia sembrerebbe voler affermare il contrario (nella nostra memoria il mostruoso è sempre stato insito nell’umano), alludendo a un perimetro noto entro il quale, dopotutto, la nostra partita di specie umana sembrerebbe continuare a giocarsi. Il tentativo di dissezione espresso nelle tavole anatomiche, pertanto, mentre rappresenta gli elementi del corpo come unità centrale, apparati audio e video, impianti di aerazione e circuiti, porta in luce l’inquietudine insopprimibile – umanissima, questa, e senza tempo – che se deriva, da una parte, dalla percezione della finitezza, della progressiva spoliazione, della fatale dissipazione, dell’usura che investe tanto l’individuo (comprese le sue relazioni con l’altro) quanto il pianeta (foreste neurali dove proprio come in quelle amazzoniche ciò che si distrugge non ricresce) a dispetto di ogni cura e premura, oltre tutti gli artifici gli innesti le appendici, deriva anche, dall’altra, dall’avvertimento dell’illusorietà di ogni promessa di migliore efficienza e durata insita nel nostro progressivo farci macchina: non sembra venire difesa dalla evoluzione/mutazione dei nostri arti e dei nostri apparati in pezzi robotici, e anzi tutto ciò che prima era è ma qui ci insidia un invisibile che non conosce antroposfera. Né, per questa via, saranno più facili e felici le nostre relazioni, se l’altro da sé resta in definitiva impenetrabile: tutti questi esseri in apparenza a noi così simili con invece la loro insondabile diversità è certo ci fanno solo specie. Ma ciò che chiamiamo “io”, e che nella sezione PASSAGGI ATTRAVERSO è ulteriormente oggettivato e distanziato dall’uso della terza persona per farvi riferimento (io parla di sé nella sua stanza guarda le foto i poster i disegni incontra gli schemi quotidiani dove scrive e interpreta sé stesso) è detto ameba, pianta carnivora, cannibale: le relazioni sono un cannibalico sbranare, succhiare altro io dentro di sé, impossibili se abbiamo in luogo delle braccia arti fantasma ed asma. La nostra è dunque una specie cui fa specie il proprio simile, irrimediabilmente altro ego: e il calembour offre all’autore (qui come in molte altre occasioni) l’efficace supporto formale per dare ragione dell’imprendibilità cangiante della materia che i testi della raccolta dipanano. Lo stesso senso sembra avere la scelta preponderante di una scrittura in prosa, priva di segni di interpunzione, sincopata da un ritmo incalzante che a tratti sembra raccogliere interessanti suggestioni pop rap, in cui le rime e le assonanze creano di continuo dissonanze, slittamenti, scarti semantici funzionali a rendere tanto la postura dubitativa assunta dall’io poetico quanto la polisemia, la plurivoca possibilità di lettura cui il (l’eventuale) lettore è implicitamente o espressamente invitato attraverso le citazioni, le N.B. o l’AVVERTENZA che precede la sezione dal titolo SPAZI PER IL NON DETTO e che, come le prime due, a mio avviso non può che esser letta come parte integrante del testo: Alcuni di questi brani possono funzionare come puzzle/Questo testo nel suo insieme è un dispositivo di lettura non lineare. Non lineare, ipertestuale, colto, aperto: convincente. (Patrizia Sardisco)