Premio Bologna in Lettere 2023
Sezione B ( Raccolte inedite)
Nota critica su Elena Cappai Bonanni, Gradienti
Quarta classificata ex aequo
Per quelli che come me hanno riposto ormai da tempo i manuali scolastici, non sarà forse superfluo richiamare qui, sia pure assai genericamente e molto semplificando, la nozione di gradiente: il significato matematico del termine che dà il titolo alla raccolta di Elena Cappai Bonanni, Gradienti, e che peraltro e non a caso non si rinviene poi in nessuno dei testi, crea una cornice di senso interessante, prismatica, che forse non dissipa l’oscuro ma ne fa vibrare, a mio avviso, il magnetismo, come l’ago di una bussola.
Nel linguaggio della fisica, il gradiente coincide con la variazione, per unità di lunghezza, che una grandezza subisce da un punto all’altro dello spazio, lungo una certa direzione: in particolare, l’idea di gradiente indica la direzione di massima variazione di una certa grandezza all’interno di un campo scalare che, a sua volta, è definibile come una funzione a più variabili. Una esemplificazione tipica, e spero un po’ più intuitiva, del concetto è quella che concerne la temperatura: il gradiente termico è appunto la progressione, la variazione della temperatura all’interno di uno spazio dato, per esempio all’interno di una stanza. Se a ogni specifico punto della stanza potessimo associare uno specifico grado, otterremmo ciò che si definisce come campo scalare. Poiché il gradiente è un operatore vettoriale, in quanto trasforma una funzione scalare in un vettore, è possibile immaginarlo come una freccia che indica come varia il campo in direzione dell’aumento della temperatura.
Ho voluto soffermarmi (forse un po’ lungamente, e me ne scuso) su questi concetti matematici incitata dalla sollecitazione che viene al lettore di questa raccolta non soltanto dal suo titolo ma anche dalla notazione simbolica ƒ ∇ ∇ƒ , che l’autrice consegna nella strategica posizione di un vero e proprio sottotitolo, e che infatti campeggia al centro della prima pagina e non lascia spazio a dubbi circa la tramatura componenziale, combinatoria, multilinguistica, dei testi che seguiranno, e della chiave di poetica che li attraversa, anticipo qui, con lucida coerenza. Ma la formula che esprime il concetto di gradiente è interessante a più di un livello, perché mentre traduce la lingua italiana in linguaggio matematico, introduce e immediatamente (e, direi anche, programmaticamente) maschera (Lanciata la pietra/togli in fretta la mano) ulteriori elementi di complessità: l’interdipendenza, insita nell’idea di funzione, tra le infinite e infinitesime variabili che tramano ciò a cui si dà il nome di realtà; la loro tensione, solo apparentemente caotica, diasporica e accidentale, verso un centro di maggiore densità semantica, foss’anche incalzato da nebbia. Una nebbia che (con alivio, con sollievo) tuttavia vocifera: non da ultimo, infatti, la formula sembra alludere alla possibilità di dire («Tu lo sai togliere il silenzio?»), di fare canto, di fare poesia, di questo infinito tendere: il simbolo ( ∇) che si legge nabla, deriva il proprio nome dal Nebel, uno strumento di legno a corde pizzicate della tradizione ebraica e fenicia, assai simile per intenderci alle preziose lire rivenute durante gli scavi condotti nell’antica città sumerica di Ur. Ma come e di cosa vocifera, dunque, la raccolta di Elena Cappai Bonanni? Per magra scritta. Nel continuo Portarsi dietro le rimanenze. Fotogrammi, ritagli di fotogrammi, ritagli di voce, lische di giorni, particole di mondi. Facendone versi spezzati, musicali, in bianco e nero. Evadendo con scioltezza il monolinguismo. Nel segno residuale, nella valenza simbolica del frammento e nella sua vettoriale risemantizzazione prende corpo sonoro una poesia che intarsia un largo respiro civile (Miss.Ily, Farmacia degli Incurabili) alla Mise-en-scéne di un io lirico antieroico, decentrato, ferito, la cui vocazione plurilingue (lo spagnolo, per lo più, ma anche il francese e l’inglese contaminano, non tradotti, i testi, oltre al codice Morse e alla già detta incorniciatura del linguaggio matematico: del resto è il secolo dell’innesto), appare al contempo un tendere e un invitare, funzione di e funzionale a, esito del modularsi di una postura etica, politica, e supporto alla formalizzazione dell’infrazione/effrazione (Torre 7, Opiorfina), della parcellizzazione (Particelle, Daltonica) cui molti testi sembrano rimandare, speculari al fascio frammentario della percezione individuale, alle esplosioni e agli incendi delle relative associazioni mentali, all’idea di mondo che rappresentano, soprattutto fedeli, fedelissimi, a un’opzione di poetica. Privi, si direbbe oltretutto, dell’ossessione di pervenire a una direzione comunicativa univoca ma frementi, al contrario, dentro una feconda ambiguità (Ecco, più forte,/scoppiare una luce./Non più una, molteplice – dice:/”hai da accendere”).
Vengono in mente le riflessioni di Mazzoni quando, in un suo noto saggio sulla poesia moderna, annotava come essa ci presenti, nel suo idealtipo, «la mimesi soggettiva di esperienze personali istantanee, condotta nella convinzione che il senso della vita risieda in poche epifanie fulminee, e che il poeta, come scrive Sereni, sia custode non di anni ma di attimi.». Di attimi con le loro minutissime cianfrusaglie, che la poesia registra e triangola: dallo scalare al vettoriale, da singolo valore a gradiente. Risana, dunque, medica le ferite, resuscita? Nemmeno per sogno. Farmacia degli Incurabili: questo è la poesia, sembra dire Cappai Bonanni. E tuttavia, Gli incubi fanno i poeti/longilinei come specchi: e da quella statura riflettente, allungata e allucinata come le ardenti figure di El Greco figlie del suo lucido plurilinguismo pittorico, incendiati a festa, forse i poeti avranno visioni algebriche di tensioni e direzioni, di trasformazioni infinitesimali, di tragedie minime e micromondi speculari a spazi universali, a tutte le volte celesti. Lei, la poesia, è la figlia rimasta/e mastica – mastica – mastica. (Patrizia Sardisco)