Francesca Del Moro vs Isabella Bignozzi

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Le note introduttive

Francesca Del Moro vs Isabella Bignozzi

 

In questi testi Isabella Bignozzi sembra voler spingere all’estremo gli strumenti della lingua per arrivare a esprimere l’indicibile, raccogliendo la sfida dantesca di dire Dio nell’ultimo canto del paradiso. La tematica religiosa, da sempre presente nella sua scrittura, dove spesso si intreccia ad altri temi, qui si approfondisce e diventa il cuore della poesia. La focalizzano esplicitamente termini precisi della liturgia cristiana (battesimo, kyrie eleison, colpa e perdono, carità, santi, misericordia, litanie, devozione, preghiera, Domeniche, croce).

L’autrice appare in cerca di un linguaggio nuovo, denso di simboli, di metafore e accostamenti inusitati, di allitterazioni, rime interne, iperbati fino al distendersi in un periodare ipotattico e liturgico. La prima poesia, ad esempio, sviluppa un periodo ipotetico nello spazio di cinque strofe, per un totale di 16 versi. Analogamente, il secondo componimento inizia con una subordinata temporale che occupa ben 12 versi fino a lasciare gli ultimi sei alla proposizione principale che, aprendosi con “così”, porta a ripensare a posteriori il significato dell’avverbio “quando”, che potrebbe introdurre una similitudine. Questa poesia si caratterizza tra l’altro per la ricorrenza del verbo “portandomi” ripetuto tre volte in epifora e chiusa potente di un componimento tutto incentrato sulla necessità di affidarsi.

La densità della costruzione sintattica inizia a sciogliersi a partire dalla terza poesia che si apre tuttavia con una brusca inversione per arrivare soltanto al quarto verso a un verbo da cui possono dipendere i complementi oggetti successivi a quello di specificazione al primo verso. Specularmente ai primi due, gli ultimi due componimenti presentano un periodare più semplice, paratattico, rinunciando come gli altri alla pausa forte del punto e alle maiuscole per lasciare che la lettura si moduli sugli spazi bianchi della pagina.

Lo sforzo di cogliere la dismisura del divino si manifesta attraverso un consistente utilizzo dei superlativi (caldissima, caldissime, trasparentissima, sottilissimi, limpidissimi, privatissime) mentre la scrittura si volge a dare un posto al dolore nel disegno divino, a conciliarlo con l’amore e la giustizia, sfociando talvolta in accostamenti ossimorici: (“cruenta sale una preghiera”; “pace senza pietà”; “bene cannibale”). L’immaginario visionario accosta il dolore a troni e fiori (“sua maestà il dolore sboccia in trono come una corolla rossa caldissima”; “appoggi la scure alata del dolore ai piedi di troni segreti”; “le martoriate perpendicolarità del suo dolore abitano l’oro dei fiori poveri”) a sottolineare come la sofferenza, in quanto parte dei piani divini finalizzati al bene, colpisca l’innocenza per poi premiarla e incoronarla. Cristo stesso, l’amoroso giglio di Jacopone da Todi qui nominato direttamente ed evocato nella bellissima immagine della croce che “sente male fino al cielo” (il dolore qui diviene proprio strumento di ascesa), è un esempio di innocenza colpita. Facendosi uomo in Cristo, Dio ha preso su di sé il dolore, ha dato l’esempio fino a divenire il primo martire della fede (il concetto di martirio è evocato dall’aggettivo “martoriato” che ricorre due volte: “germogli candidi martoriati”; “martoriate perpendicolarità del suo dolore”).

Oltre al simbolo del fiore, qui onnipresente (oltre ai casi già citati: “orchidea di spade”; “fiore cardinale”; “battesimo di una rosa”; “oro dei fiori poveri”; “calici carolingi nel sole”), abbondano i riferimenti ai colori, e in particolare il bianco della purezza, l’oro della maestà divina che si lega alla luce, il rosso dell’amore ma anche del sangue della violenza, il nero del cuore e della stirpe delle lune tigrate. Bignozzi rimane fedele a una sua cifra stilistica che consiste nell’utilizzare termini afferenti a linguaggi specialistici, in questo caso i dendriti (dalla biologia) e i ventricoli (dall’anatomia).

Una scrittura, quella di Isabella Bignozzi, che via via sia affina divenendo sempre più complessa, da cogliere con l’intelletto per la ricchezza di simboli e rimandi da decifrare, ma anche con l’intuizione (ricordiamo il fulgore che percosse la mente di Dante per permetterle di vedere Dio), per la sua portata visionaria, per l’afflato mistico. Una scrittura orante ma al tempo stesso interrogante, che non appare mai chiusa in dogmatismi a cui obbedire ciecamente e di cui farsi pedissequa portavoce, ma intesa, cristianamente, a calare Dio del mondo, perfino a metterlo in questione, in un cammino di comprensione del sacro che coinvolga l’umanità tutta.