Francesca Del Moro vs Ilaria Giovinazzo

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Le note introduttive

Francesca Del Moro vs Ilaria Giovinazzo

 

In questa occasione Ilaria Giovinazzo presenta una selezione di inediti e di testi che fanno parte della sua ultima raccolta, La religione della bellezza, edita da Pequod.

Una bellezza che non è calma contemplazione di una rosa senza spine, ma cammino sofferto, quotidiana conquista. Già all’inizio della poesia di apertura troviamo la classica contrapposizione tra ombra e luce, in apertura e chiusura del distico incipitario. “L’ombra prepara lo sguardo alla luce” è un’affermazione di Giordano Bruno particolarmente cara all’autrice, che ritrova racchiuso in queste poche parole il senso dell’arte e della vita stessa: senza l’ombra è impossibile cogliere la luce, in una sorta di rovesciamento dell’affermazione di Goethe, secondo cui “dove c’è molta luce, l’ombra è più scura”.

Sono molte le ombre in questi versi di Ilaria Giovinazzo: ci sono le lacrime, il male, la sconfitta. La breve silloge si chiude con la ripetizione del verbo “morire”, che richiama la triplice ripetizione di “essere, essere, essere” che si ritrova in una poesia della Religione della bellezza. Come a suggerire che l’essere e il morire siano strettamente intrecciati, destinati a fluire l’unire nell’altro. Essere significa essere destinati a morire, e questo vale per tutti i viventi sulla Terra, ma forse l’essere può superare la soglia della morte, e in essa permanere. “Morire, morire, morire” fa pensare quasi a un sacrificio di sé nell’harakiri, ci riporta all’eterno dubbio amletico. Ma, conoscendo il lavoro di Ilaria, in cui estetica ed etica sono inscindibili (mi viene in mente a questo proposito la frase dell’artista Ulay, “L’estetica senza etica è cosmetica”), la sua sensibilità nei confronti delle umane sorti a qualsiasi latitudine, questi versi potrebbero essere interpretati in un altro modo. È possibile in effetti riferirli al dramma dei migranti, per i quali il mare, altra parola ripetuta tre volte e assonante con il verbo morire, si trasforma spesso in una tomba. “Nessuna libertà, nessuna terra, nessun diritto alla vita” sono i versi incalzanti (ancora una triplice ripetizione) che sembrano avvalorare tale ipotesi.

È certo possibile attribuire buona parte della selezione di versi a una voce migrante impegnata in un difficile viaggio funestato dal caldo, flagellato dalla pioggia, alle prese con i confini, che possono essere esterni o interni (di questi si parla in una delle poesie presentate). Del resto in un’altra poesia, tratta dalla Religione della bellezza, l’argano potrebbe alludere a un lavoro di fatica, sotto il peso del quale si cerca ancora la luce, forse la presenza di una persona amata, o più probabilmente di un Dio che si accende negli squarci di bellezza (nelle armonie improvvise, negli attimi illuminati). Un Dio a cui si chiede una speranza, anche se illusoria (già citata al secondo verso della prima poesia).

L’essere umano, che qui è persona universale, sembra “solo sul cuor della terra”, attorniato dalla natura e dagli elementi (lecci, tigli, fiori, pioggia, vento, terra, steli, arbusti, campanula, nuvole, girasole), proteso verso il cielo, verso un appiglio soprannaturale. Un anelito spirituale, questo, esplicitato nella poesia che inizia con il verso “appartenere alle nuvole”, nella quale si esprime un desiderio di dissolvimento, di unione con il tutto, coincidente con la pura gioia.

Il valore della poesia, di questa poesia in particolare, sta nel ventaglio di interpretazioni a cui può aprirsi: nel fatto che la quotidiana lotta tra ombra e luce, tra resa e speranza, sia connaturata alla condizione umana in sé, possa riguardare sia l’avventura di chi è in cerca di una terra e lotta per la sopravvivenza, sia lo svuotamento di senso, la frustrazione che sperimenta anche chi può soddisfare facilmente tutti i bisogni primari.

Il lavoro della poesia è assimilabile a una trasmutazione alchemica, consente di trasformare in luce, e quindi in bellezza, le offese, le ingiustizie, il dolore, tutte le ombre della vita, che sono fuori e dentro di noi. I versi di Ilaria sembrano talvolta arrendersi a uno scoramento, un senso di rinuncia universale. Perfino la luce fa fatica: si insinua come una lama sottile stretta tra le foglie, oppressa dal caldo torrido, e ciò nonostante avanza. Ma cade: cade benedicendo e benefacendo oppure cade inciampando, crollando, arresa come le dita che rovesciano il cielo.

L’ambiguità permane ma è nell’atto stesso di dire tutto questo che stanno la resistenza, il fare bellezza (e i versi di Ilaria sono belli, nel loro armonioso ed equilibrato fluire, nella sintesi luminosa, nella ricercatezza delle figure foniche). Nel loro essere, come sostiene l’autrice, musica e linguaggio magico. (Francesca Del Moro)