Maria Laura Valente vs Roberta Ioli

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Le note introduttive

Maria Laura Valente vs Roberta Ioli

 

«Nel rito che ritrova il suo custode»

Sacralizzazioni di spazialità introiettate e ierofanie della memoria nella poetica di Roberta Ioli

 

 

La cifra poetica di Roberta Ioli che traluce dalla raccolta Fuochi alleati (Pequod, 2024) si manifesta come raffinato dinamismo concettuale, elegante flusso ontologico canalizzato tra i meandri di una realtà introiettata e meditata, la cui sacra spazialità, fantasmizzata dalla concatenazione epifanica di temporalità multiple, si fa tèmenos tracciato a custodia del nucleo cultuale della memoria. Tuttavia, nei versi di Ioli, il quantum del ricordo non si configura esclusivamente come mera concrezione mnesica di vissuti irripetibili, né del resto esaurisce la propria funzione nella musealizzazione di agiti fossili da vagheggiare nostalgicamente per crystallum. Liminalmente sospesa tra l’Eingedenken blochiano e l’Erinnerung di Benjamin, la memoria iolianamente intesa, nel suo darsi, si fa, infatti, vivente forma fluens che irrompe nel presente, innervandolo, fi­­brillandolo, rischiarandone i recessi («Si accende un punto di verde splendore / nella memoria dei gesti») con un lucore durevole che sopravanza la caducità umana e la volatilità dell’hic et nunc. Paradigmatica, in tal senso, l’emblematizzazione dell’aringa, il cui fulgore bioluminescente trasfigura post mortem la materia e orienta ineluttabilmente l’agire nell’attuale: «cerco dentro il buio / la scia ostinata della vita». I ricordi persistono, dunque, al pari della luce siderale sopravvissuta all’astro imploso, abitano lo sguardo come residui di visione («Viene inciso il cristallino da un bagliore / che resiste all’estinta percezione»), ridefiniscono la mappatura del presente; di contro, i viventi – «creature manchevoli», cui difetta «la felicità dei fiori» e «la scienza dell’istante», come si legge nella malinconia di un testo tratto da Il confine dell’isola (LietoColle, 2018) -, attratti da un ineluttabile role reversal, trasmutano a loro volta in litici baluardi di reminiscenza: «siamo i muri di una vecchia cattedrale / siamo le arcate cieche verso il cielo». Tuttavia, nelle geometrie mnesiche sottese alla poetica di Ioli, a una innata persistenza della visione non può e non deve corrispondere una forzata persistenza della memoria. Se, infatti, con Blanchot, «il tempo della sventura è l’oblio senza oblio, l’oblio senza possibilità di dimenticare», la stessa vis vitalis che anima i ricordi viene anche a sancirne l’autarkeia, cui consegue una loro piena emancipazione dal giogo della voluntas umana, individuale e collettiva. I ricordi irrompono nel presente e da esso defluiscono, svanendo, in totale autonomia, in un perenne moto ondivago che trascende il controllo umano: «Si staccano da noi i ricordi / come la bianca pioggia del ciliegio». Il richiamo filosofico ed estetico è tanto al rituale laico dello hanami giapponese quanto alla raffinata poetica transculturale della contemplazione estatica dell’effimero, sotto la sua egida la perdita è sovvertita in rinascita, la radice si allunga sefiroticamente verso il cielo, da cui mutua il pigmento alchemico e la pregnanza simbolica: «persino così tardi cresce / l’azzurra radice della casa». Il flusso ontologico si fa, infine, movimento onirico, dimensione liminale primigenia, la cui auroralità alogica si fa soterica sospensione del senso, estasi del silenzio: «mi parli piano, per non svegliare / il sogno, la breve resistenza dell’ora / che vive e non domanda». (Maria Laura Valente)