Bologna in Lettere 2024
Colpi di voce
Le note introduttive
Nerio Vespertin vs Gabriella Musetti
Cosa significa avere cura della vita?
Scegliere i posti dove vivere o quelli dove sostare più a lungo. Trieste, terra di frontiera, mondo dentro a un mondo. I Balcani, da percorrere in lungo e in largo, rigorosamente dopo che una molla sia scattata dentro.
Oppure prendersi cura della fragilità di un altro.
Coabitare la precarietà delle cose che restano uguali per un nonnulla, degli equilibri fragili e delicati. Essere da guida lungo gli scalini, come Montale, per non far pesare la fatica della salita, in un momento che trasforma sedici scalini in uno spazio infinito.
Oppure ancora, l’ostinazione di non arrendersi al termine ineluttabile della vita stessa.
Una corda tesa fino allo spasmo, che va oltre la sua massima estensione. Il fiorire delle rose che non si arrendono all’inverno.
Cosa significa avere cura della vita?
Questa domanda rimbomba prepotente, fra suggestioni fugaci e simboli dal gusto profondamente esistenzialista, fra le pagine di Gabriella Musetti che oggi ci presenta una selezione di poesie dai suoi due libri, “La manutenzione dei sentimenti” e “Un buon uso della vita”. Libri che oggi suonano come un invito sincero a riappropriarci delle nostre fragilità, troppo spesso demonizzate, troppo spesso nascoste dal pesante trucco di un edonismo usa e getta. Ad un’analisi attenta sono proprio questi elementi di scandalo ad essere fulcro di riflessioni profonde, che mettono al centro di tutto la piena consapevolezza dell’esperienza umana. Qualcosa che solo all’apparenza è squalificato come inutile, banalmente uguale per tutti (“le storie sono all’inizio/ tutte uguali/ nasci da un ventre aperto/dal buio vedi la luce”) ma che nella prospettiva personale del proprio tempo, si rivela unico nella sua incomunicabilità (“ma subito la storia cambia/ secondo il luogo lo status”).
Cosa significa, dunque, avere cura della vita? Paradossalmente, avere coscienza della propria fine.
Se è vero quello che scriveva Umberto Saba, che “il pensiero/ della morte che, infine, aiuta a vivere”, le poesie di Gabriella Musetti hanno il coraggio di approssimarsi alla morte con lo scopo di ritrovarvi una caparbia volontà di resistere. A questo avviso appartiene la serie di poesie sulla descrizione degli ultimi momenti di vita di donne sconosciute, incastrate negli ingranaggi delle loro piccole quotidianità.
Donne che hanno il coraggio di vivere senza temere la propria dipartita (“è morta questa mattina è morta/ ma non si è accorta di morire/ rideva come una bambina/ su un prato in primavera”).
Donne che esistono per funzionare e che si spengono di colpo, come per un guasto (“s’era spenta come una lampada/ accasciata sullo sterno senza un sospiro/ senza avvedersene”).
Donne che lasciano aperte ogni questione personale, non considerando possibile qualunque tipo di fine, non solo quella fisica (“era morta da persona irrisolta/ non portava a compimento/ alcun progetto alcuna idea”).
In contrapposizione a questo silente esercito di ombre, apparentemente ‘comuni’, si affacciano poi le voci di altre donne che hanno avuto l’ardire di lasciare un segno nella storia della poesia. Poetesse del calibro di Sylvia Plath o di Amelia Rosselli, che invece hanno scelto il come e il quando della loro morte e che nella prospettiva dei versi della Musetti, ribaltano l’apparente controsenso sugli altri, quelli che rimangono.
Un elaborato gioco di rimbalzi tra chi consacra il proprio ricordo e chi invece accetta di scomparire nel flusso anonimo delle coscienze umane.
Ancora, cosa significa avere cura della vita?
Forse, soltanto, aver coscienza di questo momento: l’adesso.
Non a caso le poesie con cui l’autrice sceglie di completare la sua presentazione, si soffermano sul vero termine di questo lungo viaggio alla ricerca dell’esistenza umana, ovvero l’istante presente (“nel puro presente/ non c’è distanza o storia che sia”).
L’unico vero spazio di cui possiamo definirci abitanti e proprietari di noi stessi. (Nerio Vespertin)