Bologna in Lettere 2024
Colpi di voce
Le note introduttive
Maria Laura Valente vs Silvia Rosa
«La crepa madre che filtra sole e ombra»
Il limen extremum tra sospensione e transito nella poetica di Silvia Rosa.
Il tema della soglia figura tra i topoi più marcatamente transdisciplinari e cross-cultural, nonché tra i più pregnanti e controversi di ogni tempo, segnatamente in ragione della dicotomia concettuale a esso sottesa: un non-luogo, in senso proprio e figurato, di attesa o di transito, di inclusione o esclusione, di separazione o compenetrazione.
La plurivocità del rapporto tra l’umano e la soglia, con particolare attenzione alle ricadute psico-emotive tanto dello sperimentare, sia pur pro tempore uno stato sospensivo di in-betweenness, sia del convertire tale stasi in atto dinamico di scelta e azione è uno dei cardini della poetica di Silvia Rosa, uno snodo tematico a lei caro nell’accezione più squisitamente leopardiana. La sua scrittura poetica e critica, infatti, torna spesso a frequentarlo, a sondarne gli spazi concettuali, a interrogarne le profondità, a indagarne le meccaniche.
Dopo le riflessioni di natura psico-linguistica sul transitus dei confini – dapprima lungamente meditate e sedimentate in forma di rubrica sulla rivista digitale Poesia del nostro tempo, dipoi formalizzate nella sua curatela del volume miscellaneo Confine donna: poesie e storie di emigrazione (Vita Activa Nuova, 2021) – Rosa riprende le fila del discorso, con la plaquette bilingue Treceri – Passaggi (Cosmopoli, 2023), addentrandosi, però, questa volta, in una diversa diramazione del percorso di ricerca intrapreso: il controverso rapporto tra l’umano e il limen extremum della morte.
Con l’animus explorandi di una endocosmonauta alla ricerca degli irraggiungibili psyches peirata eraclitei, nei testi di Treceri – Passaggi Rosa s’immerge nel salmistico abisso del cuore e ivi fronteggia, con la levità di tocco e l’eleganza che sempre connotano il suo dettato poetico, l’enigma umano della sospensione liminale («è quel gesto che resta sospeso a metà») che accompagna l’atto del varcare «la crepa madre che filtra sole e ombra».
La caducità connaturata all’uomo – creatura nata per la morte – imprime sul mondo lo stigma della perdita: «morire è questo perdere peso in loop / tutti i lemmi a cui siamo affezionati / lasciati a decomporsi»; e altrove, cucendo insieme lacerti di testo: «quelli che se ne vanno di spalle […] oltre le soglie da cui li osserviamo / perdere consistenza, diventare ricordi». Nella compostezza malinconica del respiro lungo di ogni verso, Rosa restituisce la dolenza dell’effimero a una misura aurea di accettazione, sospesa tra l’ideale etico-estetico del mono no aware giapponese e l’omnia mutantur, nihil interit ovidiano: «accetta il lutto delle cose che si trasformano».
In forza di uno stile vibratamente allocutorio, nella cui persona verbale sono irresistibilmente attratti i vivi e i morti, Rosa ricorda all’universo che ogni passaggio è metamorfosi, sia pur non anodina («cerchiamo di restare interi dopo la caduta / anche se gli occhi ci tradiscono / accogliendo il buio») ed esorta ad attraversarla liberi, se non dai dubbi, almeno dai timori: «riponi la paura in una estremità del giorno».
A sancire la sacralità laica dello spazio liminale, su ogni cosa risplende la celestialità dell’acqua, elemento metamorfico per eccellenza, la cui lustralità spirituale, custodita tanto dalla pioggia («una luccicanza d’acqua scivola / sui vetri della stanza e nell’acquaio / della tua vita») quanto dal fonte battesimale («desiderare quell’acqua, nell’ora / del proprio battesimo, prima di entrare / in un altro destino»), sana, con la grazia liquida dell’oro nell’arte del kintsugi, la frattura dimensionale tra la vita e la morte («finché la pioggia non cancella / l’orma fragile del tuo corpo»). (Maria Laura Valente)