Mattia Tarantino, Maria Ferraro “Sciababàb”

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Mattia Tarantino, Maria Ferraro

  Sciababàb

 

 

(…)

II
Chi rotola tra le ortiche, c’è la luna, che oscilla, che ammonisce, alla fine del villaggio c’è un capanno, un campanaro, suona, si riuniscono in piazza, sul sagrato. Ora parlano la lingua delle ortiche, un sortilegio, suggeriscono, fanno un cerchio bianco, cupo, magadàn bē sitru zatàn leppu, ciuffi di muschio, sangue di bestia ma la bestia è piccola e paffuta, mostra i denti, li digrigna, ne faranno una collana, un amuleto per la festa.

III
Un amuleto da scambiare per il vino. Uno balla, maghé magadàn zoi smacche zatàn, sembrano arrivare dalle città di mezzogiorno, città di stelle gialle e muschio, bancarelle per il latte, per le pietre, storie di baratto, di traffici, passaggi. Bagarì, suonano, bagarì tē scūk zàn lané, ma cosa dicono; uno ruota, scalzo, gira, guarda, gira, inciampa, pietre aguzze, per un altro una lunga strada di topazio, nomi incastonati tra le porte e il Nulla, lì l’angelo non passa, lì l’angelo è uno spavento che non fa più paura, Sciababàb, Sciababàb, ballano tutti, è ancora giorno.

(…)

 

La nota critico-introduttiva di Sonia Caporossi

In Sciababàb, la poesia di Mattia Tarantino racconta l’orgia olocaustica dell’estinzione del genere umano attraverso una lingua liturgicamente tesa verso il baratro del perpetuo rischio dell’ammanco di senso. La lingua tribale di avi archetipici, di giovani e anziani di un immaginario villaggio dell’anima, idioma straniante e straniato, avvinto da una metacronia avvolgente che si perde nella notte dei tempi, esiste forse solo per essere pronunciato come segno fonico dell’imminente abisso. Gli abitanti del villaggio vivono dapprima spensierati, poi sempre più formalmente consapevoli, sull’orlo di una perpetua catastrofe, di un’ecatombe drammatica in tensione verso una metempsicosi privilegiata, che dividendo il mondo dei vivi dall’altrove dei morti permetterà, simbolicamente, la trasmigrazione dei secondi nella contestualizzazione metafisica dei primi. Dall’alto, il poeta-vate osserva il precipizio e ne rivela le asperità e i pericoli, per raccontarne gli epifanici abbagli e le sotterranee tracciature, sentieri che si biforcano nel dualismo di vita e morte per poi tornare prima o poi a incontrarsi sul terreno dell’abbraccio dei due universi, poco prima della strage, poco prima del giudizio universale. Così, noi lettori camminiamo sul tappeto soffice e muschiato di una parola poetica che non rifiuta l’andamento simbolico e l’analogismo assoluto, antiche armi di un decadentismo mai ostentato e di maniera, anzi rivissuto attraverso la potenza evocativa del lemma assoluto, del neologismo, della deformazione prospettica del canto, della neoformazione onomatopeica, della glossolalia, dell’accostamento audace, via via verso l’assunzione perfettamente consapevole di una pratica poetico-filosofica che disegna il dis-velamento, che aletheizza l’aletheia, nella piena convinzione della potenza veritativa immane del dire, della criptomanzia del versificare, della taumaturgia del linguaggio.

Qui, respirando l’aria tumefatta di un’imminente tragedia, in un’atmosfera di attesa e sospensione di ogni certezza, la poesia vive nel e del respiro precario dell’assenza, del mancamento, per poi riannodarsi a una presenza non solamente auspicata, ma raggiunta, attraverso un percorso di formazione che trapassa il dolore, riacutizza il male del vivere nelle tensioni persecutorie del destino di un popolo letterario, un popolo di carta, perseguitato e minacciato, ideato dalla mente del poeta come per fabula ficta ma non per questo meno carnale e sanguigno, per poi ritrovarsi, in un paesaggio desolato di devastazione disanimata, nel respiro salvifico dell’essere sopravvissuti al massacro che qualsiasi vivente esperisce anche solo vivendo.

Sciababàb è la trenodia straziante di un paradiso che si trasforma nell’inferno, è il canto funebre di un villaggio di dannati ignari di esserlo, che vengono catapultati nell’Abisso dal teatro ottenebrante e impietoso della Storia, quella stessa Storia che tutti noi conosciamo, se è dell’età dell’uva il tempo in cui viviamo, se è un eone infame e crudele il dio minore in cui (ancora) crediamo, stanchi, nudi e infreddoliti dagli stenti della ragione, dalla privazione di qualsiasi gnosi, di qualsivoglia salvifica illusione.

 

Sciababàb è una delle sezioni di Se giuri sull’arca da poco uscito per i tipi di Fallone